Sociologia dell'audiofilia

A volte basta meno di un suono per riflettere. Ti fai un giro in bus, una passeggiata per strada, un salto al centro commerciale e pensi. Alla musica, ma anche al mondo attraverso cui ne fruiamo quotidianamente.
Del resto una vita senza musica non ha alcun senso. La vita senza la musica sarebbe un errore, scriveva Nietzsche nel  Götzen-Dämmerung.
E noi contemporanei, come ascoltiamo la nostra musica preferita? In pochi anni le nostre abitudini hanno subito una vera e propria rivoluzione. Complice la crisi dei supporti ottici (come i CD) e magnetici (nonostante la ‘moda’ del vinile, comunque di nicchia) e come contrappeso l’ascesa incontrastata della musica in formato file (.mp3, .flac) o direttamente in streaming (Spotify , Youtube), ormai il crepuscolo degli idoli è toccato ai vecchi impianti Hi-Fi ed agli stereo, un tempo veri e propri oggetti di culto in ogni abitazione al pari della televisione. I più hi-tech ed i borghesi hanno i loro impianti Dolby 5.1, ma va ammesso che non tutti hanno le disponibilità economiche o di spazio domestico per poterselo permettere. Io no, per citare un brontologo a caso.
In assenza di PC fissi in casa col loro case bello ingombrante, dotati senza possibilità alternative di casse esterne, è innegabile che la massa abbia ormai l’orecchio musicale completamente rapito, in termini di riproduzione audio (escluso il mondo dell'automobile che meriterebbe un discorso a parte), da computer portatili, smartphone e tablet.
Questo è causa di due differenti mutazioni alienanti nel nostro rapporto con la musica: (1) la perdita di qualità del suono ed in risposta la conseguente (2) solitudine dell’individuo-ascoltatore.

Spiego meglio. Il fenomeno di deriva acustica verso il formato file non è un passaggio banale. Il formato file, che tra i suoi vantaggi annovera indubbiamente quello di essere facilmente trasferibile, copiabile e trasportabile, libero dal suo antiquato esoscheletro fisico e di facile gestione, è anche un formato facilmente editabile dall’utente finale, spesso in maniera assolutamente inconsapevole. La compressione di un file in formato .mp3 con conseguente perdita di informazione e qualità è un fatto che viene raramente messo in luce. Ritenuta una mera questione tecnica, anche se poi la musica la ascoltiamo tutti. Quale differenza di qualità può avere un file compresso a 128Kbps da uno a 320Kbps? Con le cuffiette in dotazione al telefonino o con gli speaker del portatile, difficilmente potremmo percepirne la differenza; con lo stereo della nonna, invece, la differenza salterebbe all'orecchio immediatamente. Ammettiamolo nemmeno troppo tacitamente - del resto il suono non può tacere: la nostra società dell’alta tecnologia, del 4K e dell’alta definizione, negli ultimi anni ha perduto il senso dell’udito in favore della qualità visiva.
Del resto la perdita di qualità nelle casse di un PC portatile o del nostro smartphone, che spesso non ha neppure degli speaker stereo, è un fatto assolutamente evidente, e pure (con-)causa di fenomeni terrificanti come la loudness war, ormai senza la quale non riusciremmo neppure a distinguere le note su certi dispositivi.
La risposta a questo problema di perdita della qualità, come vedremo, non è ideologicamente neutrale come si potrebbe pensare.

Il problema (1), ossia la perdita di qualità, viene comunemente superato con due semplici accorgimenti, il secondo dei quali porterà però ad un nuovo problema.
Il primo accorgimento è assicurarsi che la compressione dei file non comprometta la qualità. Gli .mp3 a 320Kbps (lossy, ossia con perdita, seppur minima) ed il formato .flac (lossless, ossia massima qualità) al momento sembrano le soluzioni più gettonate.
Il secondo accorgimento è avere un impianto di riproduzione adatto. Pertanto, se riproduciamo musica attraverso PC portatili, smartphone e tablet non abbiamo a disposizione degli speaker decenti, basti pensare alle basse frequenze praticamente tagliate via, in favore di suoni molto metallici. Con gli impianti stereo in soffitta e gli Hi-Fi a fare la muffa negli scomparti degli ipermercati, oggi viviamo in un periodo di grande ascesa nella produzione di… cuffie. Era ovvio, no?
Nessuno ipotizza tuttavia che l'uscita minijack da 3.5mm in dotazione dello smartphone, del portatile o del tostapane possa collegarsi a delle casse audio di qualità. C’è scritto ‘uscita cuffie’, con l’icona delle cuffie. Pertanto, cuffie.
I rivenditori, sempre sul pezzo tra domanda e offerta, si sono abilmente attrezzati e forniscono cuffie di qualità per tutte le tasche e per tutte le mode. Basta entrare in un negozio di elettronica con un minimo di occhio critico. È il caso delle pessime Beats by Dr. Dre, che costano più di uno smartphone con esorbitanti cifre a tre zeri per una qualità dei componenti decisamente scadente, del resto nell’era del consumismo siamo ormai abituati a pagare i marchi che fanno tendenza senza minimamente verificarne la qualità. Spese folli a parte, la soluzione delle cuffie risolve anche il problema di far passare il suono attraverso il canale meno controllabile, ma che da sempre è stato l’unico esistente: l’aria. In questo modo non servono studi di acustica ambientale e domestica, il suono ci entra direttamente nelle orecchie come se fossimo pluggati direttamente alla macchina, un po’ come in Matrix. Non dobbiamo parlare alla mamma o alla fidanzata o giustificarci per i nostri terribili gusti musicali: tutto avviene dentro di noi, nel nostro pudico solipsismo automatico. Con la massima qualità audio, al volume che vogliamo e con il nostro massimo coinvolgimento, beninteso. Problema risolto.
Eppure, qualcosa non mi soddisfa. Cosa si perde in questo passaggio ragionevolmente indolore dallo stereo alle cuffie ad alta fedeltà? Non torniamo forse alle pur abusate riflessioni sull'homo consumens, monadico, vittima del proprio ego che non può più condividere neppure la musica attraverso l'aria, il suono e le parole nel mondo reale, ma è costretto a farlo virtualmente tramite facebook? Si può ragionevolmente parlare di alienazione? A quale tremenda e taciuta solitudine andiamo incontro?

Mi si perdoni la riflessione ingenua, scaturita da qualche suono disperso attinto per strada, a passeggio per le vie del mondo, vedendo giovani rintanati nel guscio solipsistico delle proprie cuffie a padiglione in attesa dell’autobus. Del resto, sono uno di quelli che ogni minuto della sua vita vorrebbe far tremare la terra con un power chord graffiato sulla chitarra elettrica con alle spalle un muro di amplificatori. Come negli anni ’80, mentre i nostri genitori stavano acquisendo un senso estetico della musica immensamente più sviluppato del nostro.

Un muro di amplificatori. Scena tratta dal videogioco Brütal Legend (2009), di Tim Shafer (Double Fine Productions) con Jack Black nel ruolo di protagonista viruale.



Aspetta, te lo faccio vedere!



“Ciao, finalmente quella tipa mi ha risposto!”
“Davvero? Che ti ha scritto?”
“Leggi qua!”

“Ieri sono stato al concerto degli Sbocco di Sangue!”
“Sarà stato una figata! Com’è andata?”
“Guarda questo video che ho fatto! Ho anche le foto!”

Nell’infinita ingenuità di qualche anno fa, ero convinto che all’aumentare della disponibilità e della facilità di fruizione di Internet saremmo diventati più intelligenti. Purtroppo ero vittima di una concezione assolutamente folle e fortemente scolastica e nozionistica del sapere, secondo la quale maggiore è la quantità di dati che uno immagazzina, maggiore è la sua intelligenza. Del resto un compito in classe ‘smartphone alla mano’ garantisce voti più alti che senza, quindi lo smartphone ci rende più intelligenti. Fila, no? 
Purtroppo mi ritrovo oggi ad affrontare con estrema disillusione le medesime tematiche, in un mondo di zombie – me incluso – perennemente appiccicati al monitor dello smartphone. Molto drogati ed assuefatti di tecnologia, tutt’altro che più intelligenti. Ho scaricato anche una sfigatissima app, giusto per curiosità scientifica, al fine di sapere quante volte al giorno faccio l’unlock del cellulare e per quante ore lo schermo sta attivo. Devo dire che sono una buona cavia, i risultati sono davvero curiosi (per chi fosse interessato, si chiama Break Free, per iOS e Android).

Uno dei fenomeni più frequenti e di cui siamo tutti vittime spesso inconsapevoli, è una progressiva incapacità di descrivere oralmente qualsiasi cosa. L’estrema facilità di acquisizione, creazione e condivisione di materiale multimediale, infatti, rende completamente pleonastica la descrizione verbale di un’esperienza. Molto meglio mostrare foto e video. La stessa descrizione fisica di oggetti, persone e luoghi è spesso delegata a Google, Youtube, Facebook ed al materiale acquisito col nostro device: se hai un potente quad-core con connessione ad Internet in tasca non stai certo a dilungarti a parole quando in pochi secondi hai il materiale pronto ed in un linguaggio più immediato della parola. Soprattutto quando siamo offline, fuori casa, in compagnia di altre persone: non manchiamo di estrarre l'arma per mostrare la foto dell'auto nuova o del luogo visitato ieri, il video del gol più bello della giornata di Serie A o quello del concerto al quale siamo stati - come nell'esempio. 
Lo stesso vale per i testi. Non leggiamo più un contenuto due volte per capirne bene il significato e per comunicarlo nuovamente: non usiamo affatto la memoria, la capacità di comprensione e l’attenzione. La mail inviata dal capo, la frase dello stato di Facebook o il messaggino della tipa da far leggere all’amico, non li riformuli a parole tue: attingi direttamente al testo originale, in tempo reale, col telefonino. Così si è più esatti e si evitano errori di interpretazione.
Fateci caso. La tendenza è questa. Ho l’impressione che andremo lentamente a perdere, assieme ad un grosso pezzo delle nostre capacità descrittive, un gran numero di aggettivi ormai desueti (caro ‘desueto’, tu sei il prossimo!). Il che non è di certo una perdita grave dal punto di vista del dato, poiché anche la descrizione orale più complessa di un luogo o un oggetto sarà comunque quasi sempre meno esatta di una lunga stringa binaria che compone un’immagine o un video in alta risoluzione o un file audio. L’unico spazio per la parola, così grezza e indefinita, è relegato alla soggettività ed alle emozioni, a loro volta molto meno oggettivabili e di certo non banalmente riducibili in forma multimediale.

Si potrebbe cercare di sforzarsi un po’ di più a descrivere ‘a parole proprie’, ove possibile, senza “estrarre lo strumento”, anche se il rischio di risultare noiosi se non si esprime un concetto in pochi secondi è tremendamente reale quanto tangibile e opprimente. Non è facile da accettare, ma per certi versi ormai lo smartphone è più utile e capace di noi e delle nostre facoltà conoscitive e descrittive. 
Ricordo quando, in un colloquio per una borsa lavoro durante il quale ero esaminatore in commissione, feci ad un ragazzo una semplice domanda teorica sul funzionamento del computer. Mi rispose senza troppo dispiacersi di non conoscere la risposta: “Non lo so, ma io nella pratica di solito cerco su Google”. 
Nell’assoluto imbarazzo di un’affermazione tanto grossolana, mi ha fatto molto riflettere. Per quanti anni ancora una risposta del genere sarà considerata fuori luogo? 

Il valore del silenzio

Concedetevi un minuto. Un solo minuto per ascoltare la traccia audio qui sotto. Magari con gli occhi chiusi. Poi continuate la lettura, solo dopo l'ascolto. Tanto poi ho scritto poco. Sono tra le più belle parole che la lingua italiana abbia mai espresso, con una delle sue voci migliori: Vittorio Gassman.




Avete provato un qualche disturbo durante l’ascolto? Se no, è solo perchè la voce è quella di uno che sapeva emozionare pure leggendo il menu.
La sensazione è che qualcosa manchi. Che cosa? Il silenzio.

La traccia audio qui sopra è infatti un mio montaggio audio becero ed assolutamente fai-da-te (peraltro la musica l’ho rubata a Skyrim, ma non ditelo a nessuno) di un video preso da youtube, e qui sotto potete ascoltare l’originale. Provate a compararli.




In effetti in realtà il grande Vittorio, tra una strofa e l’altra, respira. Attende. Esita. Cosa che nel mio montaggio non avviene.
Questa tecnica di tagliare i respiri e le pause, magari mettendoci sotto una musica per uniformare, è una strategia ormai abusata in ambito televisivo, e non solo. Nel mio lavoro la uso spessissimo: un’audioguida non può contenere pause, altrimenti il percorso si allunga in durata ed il visitatore del museo si annoia. Anche nel cinema il respiro viene usato solo per creare suspense (nei momenti di tensione estrema, o nelle telenovele con quei respiri spassionati quanto fasulli); tutto il resto è dialogo, rumore, azione, dinamismo e movimento. Il silenzio, quello di una persona che attende prima di proferir parola, sovente non è consentito, in quanto non veicola informazioni, ma solo sensazioni. Il silenzio è uno spreco, in epoca di spending review. Il silenzio è cultura, ma non può essere dato, perché non comunica altri dati oltre sé stesso e la sua stessa durata: una serie più o meno lunga di zeri. 
In televisione ricordo nitidamente quando Le Iene iniziarono ad abusare di questo processo di taglio continuo estremamente fastidioso diversi anni fa, cosa che oggi ormai fa qualsiasi telegiornale, alla quale siamo talmente abituati che non ci sorprende sentire una voce che non prende pause. Il tutto in nome dell’efficienza e della massima informazione nel minimo tempo. 
Del resto ormai anche noi esseri umani non sappiamo più respirare. Agli esami dobbiamo vomitare le cose addosso ai professori: dire più cose possibili nel minor tempo. Fateci caso: non respiriamo mai. Anche ai colloqui di lavoro. Il curriculum: tutto. In trecento secondi. Meglio se meno. Ma anche sul lavoro. Essere veloci. Parlare. Fornire informazioni. Senza pause. Senza respiri. Per questo siamo tutti un po’ esauriti, perché il sospiro di sollievo lo tiriamo solo alla fine, mai durante. Non ci concediamo mai un attimo di silenzio.

C’è qualcosa di inquietante, forse anzi addirittura terrificante, nel fatto che tra le due versioni io percepisca, all’udito, quasi come migliore la prima. Perché è più veloce e dinamica. Perché quelle pause lunghe ed inconsistenti, quei respiri quasi mi infastidiscono. Perché ho da fare, sono di fretta e non posso perder tempo ad ascoltare tutto quel silenzio. Silenzio, che Giacomo Leopardi nella sua poesia ripete per ben due volte, e l’unica volta che utilizza l’aggettivo “infinito” lo accosta proprio a “silenzio”. Lui il silenzio aveva imparato a conoscerlo ed amarlo, ed il grande Vittorio Gassman sapeva interpretarlo. Eroi d’altri tempi.

A me invece, pavido e spaurito, il silenzio inquieta, così come inquieta questa società rumorosa, come inquieta tutti noi, anche se talvolta non ce ne accorgiamo. Ne abbiamo paura. Ne ho paura. Perché ho paura d’aver perso il valore del silenzio.



XII - L'INFINITO

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare. 

Il pignoramento del Re del Mondo


"Panini, Modern Rome" by Giovanni Paolo Pannini - From [1]originally uploaded in en:wiki. Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons.

Il processo era terminato. Il Re del Mondo, giudicato colpevole. Doveva versare ai suoi sudditi una somma che ammontava ad una quantità quantomeno bizzarra. Due simboli di difficile interpretazione, messi così assieme, almeno per l’epoca, che potremmo raffigurare così:

∞ ¥

Immantinente i creditori (ossia l’umanità intera) bloccarono i suoi conti, confiscando tutto il suo denaro e le sue riserve aurifere. Tutto l’oro del mondo, per intenderci. Entrarono poi nelle sue gallerie d’arte, e presero tutte le opere che trovarono, scoprendo qualcosa di incredibile: il valore stimato a spanne delle opere superava di gran lunga quello del denaro. Ecco perché almeno un secolo prima lo si soleva chiamare patrimonio artistico, e si facevano investimenti per la sua conservazione, per quanto i ricavi non superassero i costi. 
Così continuarono senza sosta a pignorare i terreni del Re del Mondo: le sue spiagge, i suoi monumenti ed i suoi palazzi, i suoi centri commerciali e le sue piscine, i suoi campi da tennis e le sue ferrovie, i suoi giacimenti di petrolio e le sue mandrie, le sue gioiellerie e le sue scuole, i suoi ospedali ed i suoi porti. Ma ciò non bastava. I pignoranti continuavano a far calcoli e calcoli, confrontando le stime con quei due simboli arcani pubblicati sul mandato di pignoramento.
Fu allora che andarono a trovare il Re del Mondo, nella sua casa, ormai agli arresti, solo. Presero tutto ciò che trovarono all’interno dell’abitazione. Non bastava. Gli chiesero la speranza, che di quei tempi sembrava valere tantissimo. Non ne aveva. Gli chiesero allora la casa. Egli si rifiutò, poiché la casa è sacra. Allora gli pignorarono la fede, e poi la casa. Non vi furono obiezioni.

Il pignoramento era un complotto, in verità. Una folle idea degli scienziati dell’anno 2200 d.C. Il processo stesso era una farsa. Il Re del Mondo era stato democraticamente eletto, in una cessione dei poteri atta al superamento della paura che ricorda da vicino la filosofia di Thomas Hobbes, tornata particolarmente in voga dopo oltre un secolo di terrorismo internazionale.

I pignoranti erano in realtà gli scienziati di quell’epoca. Avevano condotto uno strano colpo di stato corrompendo la magistratura, unico potere capace di rovesciare la corona, cosa che Hobbes non avrebbe certamente approvato (ma era morto da più di 500 anni). Costoro intendevano, per dirla in breve, dimostrare che Leibniz e Newton si sbagliavano, e che era possibile contare fino a infinito senza scomodare il concetto di limite. Avevano infatti introdotto una nuova unità di misura: l’inestimiliardo (10unnumeroimpronunciabile) di yuan, reificazione numerica di beni dal valore inestimabile come il Colosseo, le Piramidi, il Taj Mahal, l’opera omnia di Shakespeare e la discografia completa dei Queen (allora quasi introvabile).
Il Re del Mondo non aveva più beni materiali da pignorare, ma l’obiettivo non era ancora stato raggiunto. Non restò che pignorarne i valori, la dignità (ma ne restava davvero poca)… ed infine la vita.

Eppure, anche volendo quantificare l’infinita ricchezza generata da quell’atto scellerato e dal valore inestimabile solo in inestimiliardi, il risultato atteso non fu raggiunto. Gli scienziati ipotizzarono di aver sbagliato i propri calcoli, valutando numerose ipotesi. Si arresero infine all’idea di dover cercare un fantomatico Re dell’Universo, sempre che esistesse, ma negli ultimi cento anni la ricerca spaziale non aveva fatto alcun passo avanti. Tutto lo scibile scientifico era diventato economia.
Pertanto gli scienziati, gli economisti di quel mondo, non si ravvidero nemmeno del proprio, banale errore: pensavano che l’unica cosa che potesse essere contata, l’unica astrazione possibile, l’unica reificazione capovolta, fosse il denaro.
Furono loro, quegli scienziati, a prendere il posto del Re del Mondo. L’umanità si estinse qualche giorno dopo – ma la borsa di Pechino no.

Perché quel Mac non funziona?!


Tanto per tornare in questo spazio di brontolmenti esistenziali e ba(rba)ggianate, è il momento di lamentarsi un po’ di un tema nerdosissimo che in questi giorni mi fa venir voglia di fulmini e saette: i continui malfunzionamenti dei computer di casa Apple. O quasi. Anzi, no.
Il punto è questo: sul lavoro molto spesso mi ritrovo a dover affrontare problemi tecnici e perdite di tempo legati alle macchine con la mela morsicata, molto più spesso di quando ho a che fare con vecchi PC ingestibili (Windows o Linux) – il che costituisce un bizzarro paradosso, considerata la celeberrima affidabilità dei prodotti made in Cupertino.

Il problema della mela morsicata è uno ed un solo: i suoi utenti.



Non voglio fare generalizzazioni affrettate, ma per quanto riguarda la mia (modesta ed opinabile) esperienza, l’utente che gira col suo MacBook o con l’iPhone crede di avere tra le mani un’astronave. Un oggetto di culto. Marxianamente, un feticcio. Eppure l’oppio dei popoli dell’informatica di massa ha creato gente talmente fissata da affermare: “si ma da quando c’ho l’iPhone è un’altra cosa” (andare su Facebook, beninteso). Gente che andrebbe in pellegrinaggio a Cupertino sperando che per miracolo dopo la benedizione di Tim Cook il proprio iPhone 4 si trasformi in iPhone 6; integralisti capaci di imbracciare l’iPad contro gli infedeli di Google con aperta l’APP Ak-47 gridando “Steve Jobs akbar” mentre fa fuoco sul display retina.

Per chi non mi conoscesse: piacere, sono Luca, il tecnico. Sul palco c’è un bravissimo polistrumentista che sta tenendo una lezione ad un pubblico di duecento studenti. Suona il pianoforte ed il MacBook. Bravissimo. Cita pure Nietzsche, dallo Zarathustra del filosofo a quello di “2001 Odissea nello Spazio”. Poi d’un tratto gli si inceppa il CD, evidentemente rigato, rendendo impossibile la riproduzione del pezzo. Passano minuti imbarazzanti. Che ci voleva ad importare il contenuto CD sul disco rigido del MacBook? Nulla. Ma la fiducia cieca nel mezzo divino non può essere messa in discussione.
Qualche giorno dopo, stesso palco, in clamoroso ritardo arriva una tizia super-gasata con l’ego over 9000 e pretende di mettere la musica durante uno spettacolo comico senza neppure provare. Tanto c’ha il MacBook pure lei. Io la avverto. “Li fanno apposta per queste situazioni, sono affidabilissimi”, mi risponde tutta affaccendata, come se tutta la complessità del problema si riducesse all’affidabilità del computer. Vi lascio immaginare la débâcle: volumi completamente sproporzionati all’impianto, venti secondi di panico. Per inciso, la colpa di nuovo non è della macchina ma della demenza di chi la usa.
C’è anche chi parla la lingua superiore della Apple e se ne strafotte del linguaggio dei plebei. Parlo della supponenza trascendentale dei grafici (una razza a parte, si riconoscono perché sulla scrivania del loro iMac ci sono millemila icone tutte sparse che non ci si raccapezzano neppure loro), che dopo innumerevoli elucubrazioni spocchiosissime sul formato più corretto per spedirti un file te lo rigirano in Illustrator (.ai o .pdf) senza minimamente pensare ad allegare pure i font (e io come ci lavoro?), oppure per risolvere te lo girano coi testi in vettoriale (e io come ci lavoro?) e dopo aver terminato non ti lasciano neppure i loro documenti di lavoro perché “non funziona il tuo hard disk” (incompatibilità con NTFS… mai sentito parlare? Formattarlo in exFat?). Snort…

Poi ti arriva lo sfigato dipendente comunale con un vecchio PC portatile a manovella, con quel Pentium 4 antidiluviano e Windows XP che ti dice, timido timido: “è mio ma non so come si accende… ci pensi tu?” – e lì tiro un sospiro di sollievo. Sono felice. Sono felice perché dal basso della mia inettitudine trovo una persona che almeno ha l’onestà intellettuale di riconoscere i propri limiti, di capire che una macchina è una macchina è che un ignorante è un ignorante, e resta tale anche se ha acquistato un Mac. Ma non può ammetterlo, perché ci ha speso molti soldi.

Appleisti di tutto il mondo, sgonfiatevi!

Nel frattempo guardatevi fino allo sfinimento questo video di Sio. Perché ce l’avete grosso. L’ego.


#Sonostufo


Sono stufo di scrivere su diari virtuali.
Sono stufo di non aver mai tempo per scrivere sul blog.
Sono stufo di non saper scrivere a mano. Braccia – anzi mani – strappate all’agricoltura.
Sono stufo di scrivere su siti non-responsivi. Se questo lo è, non l’ho programmato io.
Sono stufo di sentir gente che pensa che si possa navigare solo da dispositivi mobili.
Sono stufo della grandine. Molto stufo. Soprattutto di quella grossa.
Sono stufo di modelli di business, di sviluppo, di crescita e di profitto.
Sono stufo delle crisi di sovrapproduzione. Soprattutto di sovrapproduzione culturale.
Sono stufo di sentire gente che infila parole in inglese a caso perché fa cool.
Sono stufo di fare confronti tra pubblico e privato. Noialtri li critichiamo mentre ci dilaniamo nell’atroce invidia della stabilità, della ricchezza e della mediocrità.
Sono stufo di questa nauseante e patetica moda dell’informatica di massa.
Sono stufo perché l’informatica di massa potrebbe salvare il mondo, invece salva solo i profitti delle solite tre o quattro aziende che se ne fottono di salvare il mondo.
Sono stufo perché l’informatica di massa potrebbe salvare la cultura, invece salva solo tante foto di donnine nude su facebook a fini onanistici o di spettegolamento sociale.
Sono stufo di essere stufo. Sarà la stanchezza.
Sono stufo di sentir chiamare arte e cultura “il prodotto” o “il brand”.
Sono stufo degli economisti. Da quando sono più dei filosofi il mondo va a rotoli (ma almeno va a rotoli sorridendo J J J).  
Sono stufo di chi si sa sfogare solo sul web.
Sono stufo di chi si sfoga sul web, in genere.
Sono stufo di chi si sfoga sul web, ma non se ne accorge.
Sono stufo di chi ripete le cose.
Sono stufo di chi ripete le cose e crede di scrivere poesie.
Sono stufo di chi scrive poesie. Non le legge più nessuno.
Sono stufo di chi non legge più le poesie.
Sono stufo anche di chi non legge più Marx.
Sono stufo di chi afferma che non ci sono più destra e sinistra, ma solo giovani e vecchi. Per inciso, tifo per i vecchi.
Sono stufo di chi su Internet scrive con grande decisione, poi nella vita la nasconde. Eroi dei due mondi falliti che si accontentano del mondo virtuale.
Sono stufo di Balotelli. Il suo vittimismo è ridicolo: da solo guadagna quanto tutte le popolazioni africane ed ha pure il coraggio di far polemiche sterili.
Sono stufo delle guerre tra poveri. Di tutte le guerre e di tutti i poveri. Ma non per questo faccio guerra alle guerre.
Sono stufo di chi non crede e bestemmia perché va di moda e perché la fede è roba per vecchi, noi giovani abbiamo ben altre divinità: il mercato, il profitto, la competitività e la meritocrazia.
Sono stufo di gente che non distingue le regole dalla burocrazia.
Sono stufo di chi le regole non le rispetta e ci insegna a non rispettarle.
Sono stufo di noialtri che prendiamo questi signori come esempio (ma li condanniamo pubblicamente).
Sono stufo degli ipocriti, perché pensano di non esserlo, di fatto non pensando affatto.
Sono stufo di chi ipocrita sa di esserlo, ma non gli fa neppure dispiacere.
Sono stufo della flessibilità che non da regole e ti fa sentire libero, autonomo e gratificato - solo perché poi non ti retribuisce.
Sono stufo di non poter sforare 140 caratteri. Perché anche se li sforo nessuno ha l’attenzione per leggere un testo un minimo più prolisso. Figurarsi a scriverlo!
Sono stufo di chi usa l’hastag. Soprattutto nei titoli.
Sono stufo di chi scrive liste e poi non ci va a fare la spesa.
Sono stufo di chi scrive e non sa scrivere. Poi vende milioni di copie.
Sono stufo di chi scrive su blog, non fa neppure dieci letture ma si sente un minimo appagato, giusto per il piacere d'aver postato. Anzi, mi fa proprio schifo.

Elezioni in strada


Generalmente mi ricordo una domenica di sole, una giornata molto bella, un’aria già primaverile in cui ti senti più pulito... anche la strada è più pulita, senza schiamazzi e senza suoni. Chissà perchè non piove mai quando ci sono le elezioni…















La Filosofia del TuTTorial




Oggi tutto è tutorial. TuTTorial.

Non sappiamo più far nulla (o quasi, dai), ma sappiamo assemblare cose, indicazioni, mobili, ricette ed idee. Il tutto a patto che ci dicano sempre esattamente come. Meccanicamente. “Qua nessuno c'ha il libretto d'istruzioni”, cantava Luciano Ligabue, che di certo non è un attento sociologo. Oggi tutti abbiamo il libretto di istruzioni. Tanti libretti di istruzioni. Testuali, audio e video. Tutti tutorial.
Abbiamo dinanzi una situazione ma non abbiamo strumenti d’analisi per capire il problema e sintesi per risolverlo, il nostro cervello funziona sempre più come un: “analizza il problema per trovare le parole chiave da cercare su Google”. Quante volte vi è capitato? A me spessissimo.

Il “tutorial”, o “tutoriale” (suona da schifo in italiano) implica nella stessa definizione la presenza di un tutore. Chi è il tutore?
Il tutore, ad esempio, è il GPS in auto o nel cellulare: dopo ore perse ad aprire applicazioni pesantissime, impostare parametri, attendere la geolocalizzazione di almeno tre satelliti, il calcolo del percorso e caricamento dei POI online, alzi la testa da quel maledetto touch screen e scopri di essere già arrivato. “Allora ce l’ho questo senso dell’orientamento!”, si ma intanto hai perso un’ora a pasticciare sul dispositivo. Tratto da fatti realmente accaduti(mi), ovviamente.
Il tutor, letteralmente, ti fa decelerare quando vai troppo forte. Guidare col piede più leggero sul gas, invece, è improvvisamente troppo difficile.
Stai male? Hai sintomi? Cercali su Google. Chi di voi non ha mai fatto ricerche mediche su Google, scoprendo di avere meno di 24 ore di vita? (Rivelatisi poi sintomi di una comune influenza da due soldi). Penso che Berlusconi se la sia diagnosticata lì la famosa uveite, dopo un post brillante di streghetta74 su Yahoo Answers.
Hai problemi con il PC? Di nuovo Google ha la risposta. Lui è il tutor maximus (dopo ovviamente c’è Salvatore Aranzulla con le sue malsane strategie SEO). Ma in questo spesso funziona, per chi sa ben identificare il problema, trattandosi di problemi di macchine prodotte in serie – e pertanto serializzabili anche i problemi.
Vuoi cucinare? Leggi i tutorial per il Bimby: butta dentro l’apparecchio le cose nell’ordine e con i tempi giusti e sarai un cuoco degno di Master Chef. Lo stesso dicasi per le mirabolanti ricette per il microonde.
Ti senti un vero artigiano? Puoi esserlo: segui passo passo il libretto dell’IKEA e scoprirai che non ci voleva poi tanto a montare l’armadio di due metri direttamente in cameretta.
Più in generale, per ogni cosa c’è un’app. Un altro tipo smart-tutore. Roba che ti ritrovi a chiedere all’app del meteo “che tempo fa” prima di guardare fuori dalla finestra.
Chitarrista? Via i vecchi ed obsoleti spartiti, la musica non è questione di suono o di orecchio. Ci sono le tab! Un metodo geometrico semplicissimo che ti dice dove premere e quando, e se proprio non ci riesci dai in pasto il tutto ad un programma tipo Guitar Pro o Tuxguitar (per gli amici Linuxari) che ti suona pure. Stesso discorso per titoli come Rocksmith, un videogioco con la chitarra “vera” ed un jack USB che con un metodo analogo ti fa capire cosa premere e quando – che t’importa di sentire il suono? Anche un sordo saprebbe suonare perfettamente in questo modo. No, non un sordo tipo Beethoven…
A proposito di videogiochi: mi spiegate perché oggi fanno pure tutorial per insegnarti a saltare? Guardate ho una carriera pluridecorata nel settore, lasciatemi imparare giocando!
Anche nella lettura il simpatico Kindle ci aggiorna in tempo reale su quanto tempo impiegheremo per terminare il libro, e noi ci fidiamo ciecamente delle sue equazioni. Salvo scoprire a due ore dalla fine “presunta” che il libro è già finito ed il povero idiota digitale sta calcolando come pagine anche la lunga bibliografia in appendice.
Per non parlare di youtube: ci sono video anche su come pettinarsi i capelli, tutte quelle cose femminili del makeup per le quali la parola tutorial è oggi celebre. Ora che ci penso, dovrei imparare anch’io a pettinarmi i capelli.
Sembra addirittura che abbiamo smesso di produrre pensieri propri, anche per esprimere idee ci affidiamo al testo scritto da altri: ci avete mai pensato che quando si “condivide” su Facebook si condividono pensieri prodotti da altri, spesso sconosciuti? Quanti di voi hanno condiviso post/pagine/contenuti di vostra creazione nelle ultime due settimane? Di sicuro in pochi.
Tutorial sono io, quando evidenzio simpaticamente in grassetto qualche parola ogni tanto, per far focalizzare l'attenzione in un post di più di tre righe, altrimenti i lettori del 2014 si perdono nella densità del testo quando leggono tre parole in più.

La Filosofia del TuTTorial è oggi imperante, deleghiamo alla macchina, al video ed al testo (spesso facilmente reperibili online) ogni aspetto del nostro fare; fatto non del tutto negativo, poiché porta diversi vantaggi in termini economici e di tempo impiegato, ma andrebbe acquisita una coscienza riflessiva per bilanciare le attività: ci sono situazioni reali in cui l’utilizzo dello strumento informativo è effettivamente utile, altri in cui è fondamentale ed altri in cui dobbiamo re-imparare a far sbocciare la nostra creatività, prima che si addormenti per sempre. 

Anche questo post, sebbene faccia schifo, l’ho scritto io, ma senza tutorial – e questa, ammettiamolo, già sembra una gran conquista…

Meglio il mio “male” o il tuo “peggio”?



È di qualche minuto fa la dichiarazione dello scrittore Aldo Busi, a Piazza Pulita su La7:

È più violento un ragazzo che brucia un cassonetto o i manager di Stato che prendono 600 milioni di euro all’anno?

La frase è riferita alla protesta di sabato scorso a Roma che si è protratta fino agli attuali insediamenti a Porta Pia. Non entrerò qui nel merito della questione, per la quale i manifestanti hanno tutta la mia comprensione. Vorrei solo astrarre un po’ l’affermazione. Generalizzarla. Come fanno da sempre i filosofi.
Mi colpisce la frase e la stortura etica che nasconde un simile argomento retorico, quando questo è volto a giustificare un fatto negativo, mettendo in luce un fatto (ancor più) negativo. 
La domanda retorica del buon Busi è infatti vera e per certi versi condivisibile: è sicuramente più “violento” (nel senso di “dannoso” per la società, ma anche nel senso di “crudele”, inteso come senza etica né educazione alla convivenza) un manager di stato che lucra immeritatamente sulle tasse dei cittadini di un povero ragazzo disoccupato che brucia un cassonetto come segno di protesta, ma questo argomento non giustifica il cassonetto bruciato – sebbene di fatto lo faccia, e pure a fin di bene. 
Un altro esempio è l'argomento ad hominem: “io ho rubato 100 euro, ma tu ne ha rubati 5000!”. Chi ruba 5000 euro deve essere punito con più severità rispetto a chi ne ruba 100, ma se l’argomento in questione era il mio furto di 100 euro, invocare il tuo furto da 5000 euro è solo un argomento retorico per distogliere l’attenzione da un fatto all’altro. 
“Meglio colpire un albero ai 180 Km/h o colpirlo ai 100 Km/h?”. Credo che la persona razionale dica: “sarebbe meglio cercare di non colpirlo”, aggirando logicamente l’argomento-trappola, con la responsabilità di chi non sta al gioco. Troppo facile rispondere “100” a gran voce come il pubblico televisivo-zombie di Iva Zanicchi qualche anno fa. 

La macchina del fango di quest'epoca si alimenta con argomenti potenti come questo. Argomenti purtroppo intrisi di cattiva retorica e fortemente diseducativi, con i quali noi giovani facciamo i conti tutti i giorni ricevendo sovente il cattivo esempio dai media, come in questo caso, senza avere gli strumenti per comprenderli e disinnescarli. Impariamo così a ragionare in questo modo, e trasliamo questo genere di argomenti dall’iperuranio malato dello schermo televisivo alla nostra quotidianità, con risultati sovente pessimi sul nostro senso civico e sociale. Anziché fare a gara tra cattivi esempi, non sarebbe meglio argomentare in maniera virtuosa? Siamo davvero condannati, nella società come nella politica, a perseguire la filosofia e la pratica del “male minore”?

Sulla bufala della “Storia dell’Arte cancellata” (e sulla sQuola reazionaria)



In questi giorni circolano con insistenza in rete notizie circa gli effetti a lungo termine della Riforma Gelmini del 2010, rei a quanto si legge di aver inferto un colpo mortale all'insegnamento di Storia dell’Arte nelle scuole secondarie. Grande sfregio alla cultura dei giovani non rettificato (per non dire confermato) dal Decreto Scuola varato dall’attuale Ministro Carrozza. Ed ecco che spunta la solita, sacrosanta petizione (eccola, su firmiamo.it) già con oltre 3.000 firme per salvare la cultura dalle oscure grinfie della politica. Viene da chiedersi se la situazione sia così assurda come la si racconta, oppure, al solito, in Italia si brontola prima e si ragiona solo poi. Pertanto, l’internettiano brontologico medio (il sottoscritto), procede a googlare per raccogliere il maggior numero di informazioni e capire cosa davvero stia accadendo all’insegnamento di una tra le materie più affascinanti del percorso scolastico – ed uno dei pilastri sui quali poggia l’intera cultura del nostro paese.

I risultati dalle testate online sono sconcertanti. Quasi nessun sito riesce a far capire al lettore (o forse sono io ad essere stupido, in quanto lettore, e la cosa non è da escludersi) in con quale metodo e con quale arma questa riforma “uccida” la Storia dell’arte. Ci sono state delle riduzioni. Dei tagli. Ma quali? In quali istituti? Di quali entità? 
Nel leggere i titoli (ma anche gli articoli) scopriamo che la vittima è morta senza che nessun cronista abbia saputo nulla del cadavere: se qualcuno l’ha visto, come è avvenuto il fatto. Si sa solo che è avvenuto. Sarà che le “tre I” della Moratti hanno mandato in sbornia i giornalisti, facendo dimenticare loro la regola delle “5 W”?

L’articolo apre con l’apocalittica: “La Storia dell’arte è stata cancellata dai programmi scolastici, come previsto dalla Riforma Gelmini, in tutte le scuole […]”.



Leggendo i cliccatissimi articoli (controllate i millemila like e “consiglia” su faccialibro), non vi è traccia di una qualche informazione su come effettivamente questa materia venga cancellata. L’impressione (falsa) che si ha è che dall’oggi al domani le ore di Storia dell’Arte siano state annichilite, perché come insegna (in negativo) la Gelmini è meglio studiare i neutrini, piuttosto che Picasso. Letti tali articoli, insomma la conclusione logica è: “da oggi in tutte le sQuole di tutti gli ordinamenti non si insegnerà mai più Storia dell’Arte”.  

Anche leggendo l’appello di Firmiamo.it, già citato, testo che ampiamente condivido, non si ha l’impressione del nodo della faccenda: che cosa cambia nei programmi di Storia dell’Arte?

Scopriamo che la stessa Gelmini nel 2011 aveva precisato, in una lettera al Corriere, che sintetizzo qui ma che andrebbe letta nella sua interezza:

Sull’insegnamento della Storia dell' arte nelle scuole secondarie superiori sono state dette e scritte in questi giorni molte inesattezze. […] prima della riforma l' ordinamento del liceo classico prevedeva complessivamente, per la Storia dell' arte, 4 ore nel solo triennio […] La riforma ha innalzato da 4 a 6 le ore di insegnamento nel triennio. Quanto al liceo scientifico, le ore previste per la Storia dell' arte sono rimaste invariate. La riforma ha, inoltre, introdotto due nuovi licei [...] in entrambi […] è stata inserita la Storia dell' arte. Il liceo artistico è stato profondamente trasformato e le ore di Storia dell' arte sono state portate da 9 a 15. Il liceo musicale, anch' esso di nuova istituzione, ne prevede 10. […] Anche nell' istituto tecnico per il turismo le ore di Storia dell' arte sono state portate da 5 a 6. […] Naturalmente esistevano anche 800 diversi indirizzi sperimentali, una frammentazione inaccettabile ed insostenibile, che presentava i modelli orari più disparati e che non può essere oggetto di confronto vista l' estrema varietà. In alcuni percorsi, infatti, la Storia dell' arte era presente, in altri era del tutto assente anche nel triennio. […]” 

Come si può facilmente verificare, infine, leggendo questa tabella, risalente addirittura al 2009, oppure in formato testuale su Artem Docere i tagli ci sono. Soprattutto negli istituti tecnici, dove una svolta decisamente tecnicista si è de facto verificata, abolendo la materia, a torto o ragione - se ne può discutere. Ed è verissimo che negli indirizzi turistici la soppressione di Storia dell’Arte è uno strano paradosso; una fortissima contraddizione sulla quale vale la pena discutere,  come fa il sito di Varese News, che comunque titola in maniera tutt’altro che professionale, come gli altri: “La Riforma Gelmini cancella storia dell'arte”. Eppure l’impressione è che la Gelmini non abbia mentito constatando le ore addirittura aumentate nei trienni dei licei. Al contempo, fanno riflettere i titoli falsi e truffaldini di certe testate online, tanto che stamattina mi è andata di traverso la colazione nell’atto di esclamare: “eccheccazzo, la casta ha abolito la Storia dell’Arte!” in una posa che ricorda il meme del cereal guy.



Questo sensazionalismo va rivisto, e merita una riflessione. Questo sensazionalismo va stravolto con la forza della pacatezza: la forza dell’equilibrio e dell’onestà intellettuale. La sQuola si dimostra in questi casi reazionaria ed incapace, assieme agli amici scribacchini, di veicolare un messaggio complesso che andrebbe analizzato nei suoi intimi dettagli. Andrebbe capito innanzi tutto l’oggetto della discussione, l’entità dei tagli e fatte le successive proposte costruttive per risolvere la questione, al di là dei prevedibili interessi corporativi del docenti di Storia dell’Arte. Questo dovrebbe insegnare la sQuola. Se gli insegnanti sono i primi a far rivoluzioni con imprecisioni colossali come i titoli di tali articoli (ed i commenti sottostanti, leggere i testi linkati per credere), come pretendono di avere studenti capaci di restare sul pezzo e non uscire fuori tema con strafalcioni epocali?

Purtroppo la sQuola deve in primis riflettere sul fatto che non si può opporre ad infinitum al cambiamento, e che non è attraverso titoli sensazionalistici e sante crociate che risolverà i suoi innumerevoli problemi, ma attraverso l’analisi della situazione e la ricerca delle soluzioni. Tutti siamo in grado di dire “non diminuiamo, ma aumentiamo” (le ore, gli investimenti, i diritti, le risorse), ma purtroppo oggi non basta più. Bisogna anche essere propositivi, adulti, non chiedere solo a mamma e papà di avere di più ma dare consigli concreti su come stare meglio. Su come cambiare. Se questo cambiamento è errato, lo si può cambiare ancora, perché il cambiamento (si) cambia. È la paralisi, la stasi, la rigidità a morire d’inedia. Dalla (vera) rivoluzione del ’68 la sQuola ha mascherato le proprie azioni reazionarie da rivoluzioni – e intanto siamo ancora ancorati alla riforma Gentile del ’anteguerra, nell’era di Internet e dei social media. Gli atteggiamenti della sQuola nei confronti del cambiamento hanno spesso toni sensazionalistici e reazionari, questo caso purtroppo ne è l’ennesima conferma. 

Se non vogliamo far morire (per davvero) una disciplina meravigliosa ed intrisa di italianità come la storia dell’arte, tra l’altro grande polmone economico e turistico del nostro paese, dobbiamo cambiare atteggiamento per primi: essere più critici e non lasciarci abbindolare come cretini dal primo titolo sensazionalistico che leggiamo a sparar commenti rivoluzion… ehr… reazionari senza prima informarsi sulla questione. Altrimenti faremmo meglio a chiuderla del tutto, la sQuola: se non siamo critici nella ricerca delle (fonti delle) informazioni, così come Cartesio nella ricerca della verità, allora la sQuola non serve più a niente. Aboliamola del tutto, come quella robbaccia inutile della Storia dell’Arte! (Si scherza, eh!)

EDIT 02/2014 - Incredibilmente nonostante i numerosi articoli anti-bufala comparsi online volti a smascherare questa menzogna, ancora vengono pubblicati e condivisi articoli come questo di Bloggokin. Bloggo... chi?