Sulla Torre e sul Fare
Tratto da una storia (quasi) vera
La torre di Babele (1563), di Pieter Bruegel |
Incipit. Raggiunta l'età di trent'anni, il Profeta
ascese alla virtuosa solitudine della montagna, lungi dall'incedere ruggente
del tempo nel villaggio – ora meditabondo e silenzioso, sognatore dialogante
con lo spirito del mondo, saggio esploratore nelle profondità della coscienza
che non echeggia e non stride al manifestarsi dell'altro-da-sé. Per
dieci lunghi anni il Profeta ignorò il tempo.
Si svegliò un mattino: l'aurora lo chiamò la sua luce e gli disse il suo
calore, poi indicò il suo pieno e scoppiettante silenzio. L'ora era giunta.
Il Profeta scese dal monte, fino al villaggio, e così parlò agli uomini:
“Ecco, io vi annuncio il fulgido segno più grande e splendente! Dalla
pietra del mio fare sorgerà il più grandioso monumento per
l'imperitura gloria di queste terre! In esso i vostri figli realizzeranno ciò
che siamo stati, in esso forgeranno ciò che vorranno essere e saranno. Questo
ed altro, troveranno in esso! Innalzeremo una torre – questo è l'immacolato
segno del mio fare!”.
La gente ascoltò dapprima incuriosita quelle parole, poi lo ignorarono,
credendolo pazzo.
Tuonò allora il Profeta:
“Non giungono come aghi di pungolante verità le mie parole? La colpa
dell'inettitudine è in questo luogo, e l'inettitudine è segno di chi ignora il
vero! Chi non conosce la verità non ha che pugni carichi di sabbia, ma chi
innalza la torre dev'essere grave maestro di roccia e ferro ed altitudine,
poiché dovrà edificarla sulla montagna più impervia, sul picco più elevato – e
se non avrà una scala dovrà saper salire sulla sua stessa testa: come potrebbe
altrimenti? L'inettitudine è segno di chi ignora il vero! Non la sentite
corrodere questo luogo in cancrena?”
La gente se n'era già andata, ognuno nel suo affannoso daffare. Restava solo il
capo villaggio, che così parlò:
“Sono parimenti convinto che quivi alberghi il falso. Potrebbe dunque
essere l'inettitudine dei cittadini di questo villaggio, come tu dici. Ma se
così non fosse? Non resterebbe dunque la tua sola inettitudine, ad
indicare il falso che impregna questa mattinata di sole? Dici di costruire una
grande torre che sia effige di potenza, virtù, verità e ricchezza. Tuttavia,
nel lontano Sennaar, terra bagnata dal grande fiume, la stirpe di Noè costruì
un tempo una torre – ed è per lor cagione che Iddio scese e confuse le lingue
degli uomini, perché così questi non potessero comprendersi l'un l'altro.
Ignori forse tutto ciò? Vattene! Le tue invettive non sono qui gradite,
forestiero!”.
Il Profeta tornò furibondo sulla montagna, e pose sulla cima di essa la prima
pietra del suo fare. E così ancora, e di nuovo, un'altra volta –
poiché egli aveva possenti mani per scavar buche e modellare pietre e marmo,
per forgiare col fuoco il ferro e l'oro.
Quando la base della torre fu ben visibile agli uomini del villaggio, alcuni
tra loro videro il meraviglioso lavoro del Profeta, e lo adorarono, ed ascesero
fino alla sommità della montagna. Giungevano infatti da lui ed innalzavano la
torre con le loro mani.
Superbo e fiero del successo della sua opera, il Profeta tornò dal capo
villaggio. Lo trovò stanco ed affaticato, con il respiro debole e smorto, e
così gli parlò:
“Come puoi non biasimarti da solo? Tutti i villaggi, le città, i paesi e
gli imperi si inchinano alla torreggiante maestosità della mia opera; un giorno
anche il cielo riconoscerà il nostro glorioso lavoro! I figli dei nostri figli
ed i figli dei loro figli ricorderanno un giorno la meraviglia edificata dai
loro padri, e dai padri dei loro padri fino a noi! E tu, sciagurato, t'affanni
per preparare banchetti, per costruire terrazze, scarabocchiar fogli
nelle assemblee e riscriver leggi – i tuoi figli ignoreranno quelle leggi,
ormai superate, oblieranno quelle assemblee, nel loro tempo quelle terrazze
saranno già crollate e dei banchetti di oggi non resteranno domani che gli
avanzi divorati dai vermi famelici. Il tuo fare muore appena
viene alla luce!”
Il capo villaggio ascoltò, attento e meditabondo, e rispose a bassa voce, con
profondi respiri:
“Il mio compito è ascoltare i bisogni della gente, vivere tra la gente ed
aiutare la mia gente. Questo è il mio incarico, questo è il mio fare.
Ma vieni tu dunque a criticare il mio operato con la vanagloria della tua
opera? Sei il benvenuto in questo villaggio. Sarai accolto tra noi. Potrai
intrattenerti ai nostri banchetti e bere il nostro vino, presenziare alle
nostre assemblee e richiedere la parola e presentare le tue obiezioni, potrai
reclamare il mio posto quando verrà il momento, poiché il mio tempo volge ormai
al termine!”.
Il Profeta se ne andò, e non tornò per intrattenersi ai banchetti né per bere
il prelibato vino del villaggio, non tornò all'assemblea per richiedere la
parola e presentare le proprie obiezioni, non reclamò il posto da capo
villaggio – tornò invece alla montagna ad osservare compiaciuto il lavoro e
l'alacrità degli uomini a lui più devoti, e fu colto dall'estatica visione
della torre più maestosa e splendente, contemplabile soltanto nelle idee dei
più folli e dei più saggi, e su quel pensiero si addormentò, gaudente.
Si svegliò qualche tempo dopo – e gridò, inorridito. Un solo uomo era rimasto
lì, al lavoro, ed era gracile e scarno. Così gli parlò il Profeta:
“Dove sono dunque gli altri, tuoi compagni? Sono forse fuggiti durante il
mio sonno? Sono forse tornati al villaggio?”
Il pover'uomo annuì, spaventato.
Il Profeta scese allora al villaggio. Il capo villaggio era molto malato, tanto
che non poteva più svolgere il suo incarico. Stanco e debole, giaceva ormai sul
giaciglio del suo ultimo viaggio. Gli uomini correvano e si affaccendavano per
sostituirlo, presto qualcun altro avrebbe preso il suo posto, e tutti col loro
daffare correvano e sbraitavano per le contrade negli echi di quell'andirivieni
continuo.
Il Profeta si sottrasse allora agli uomini e tornò sulla sua montagna, alla
base della torre, ormai imponente, e si coricò, superbo, irato verso
l'inettitudine degli uomini, poiché essi non avevano compreso il senso del suo fare.
O forse, egli non aveva capito il senso del fare degli uomini.
Non stiamo qui a discutere sul senso vero del fare, dice l'Autore,
né a schierarci col Profeta o col capo villaggio; il lettore più accorto si sarà
già avveduto di ciò: nessuno dei due personaggi è indispensabile al villaggio.
Il Profeta, infatti, è colui che lascerà un segno intangibile nella storia e
nelle coscienze dei cittadini. Ma, probabilmente, in molti tra gli uomini non
avevano alcun interesse nel costruire la torre più grande, magari qualcuno
avrebbe preferito costruire una banca, chi una chiesa, qualche palato si diceva
già soddisfatto di una bevuta in compagnia, l'atleta si sentiva felice al
termine della sua corsa ed il musico già aveva raggiunto la pienezza di sé nei
suoi arpeggi e nelle sue melodie.
Parimenti il capo villaggio svolgeva soltanto una funzione di coordinamento e
supporto; il punto di riferimento per ogni cittadino confuso e disperso, pur
tuttavia anch'egli sostituibile (infatti qualcun altro prenderà a breve il suo
posto), non indispensabile agli uomini del villaggio, i quali, al termine del
racconto riescono comunque a muoversi in sua assenza.
Se il Profeta ed il capo villaggio avessero cooperato in pace, riconoscendo ognuno
il valore, i limiti e le potenzialità dell'altro, la torre sarebbe divenuta ben
più ricca e maestosa, ed il capo villaggio sarebbe ancora in salute, poiché
l'assenza degli uomini che gli sono stati sottratti e del loro supporto è la
causa del suo male.
L'Autore vorrebbe far riflettere il lettore su ciò: proprio da qui nasce la
ricchezza nel rapporto tra gli uomini. Se ognuno imparasse a rispettare ed
onorare il ruolo dell'altro, riconoscendone l'importanza ed i limiti, senza
ritenere che il suo fare sia più virtuoso di quello altrui,
nel ricusare futili conflittualità e nel cooperare, probabilmente tutti ne
trarremmo grande vantaggio – sia chi costruisce torri, sia chi ha occhi,
orecchie e mani per la gente.
L'Autore
Monti – uno che non ha nulla contro la costruzione di torri.
Tratto dal mio vecchio blog.
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