Sulla Torre e sul Fare
Tratto da una storia (quasi) vera

22 mag 2009 19:30 , , , , 0 Comments

La torre di Babele (1563), di Pieter Bruegel
Incipit. Raggiunta l'età di trent'anni, il Profeta ascese alla virtuosa solitudine della montagna, lungi dall'incedere ruggente del tempo nel villaggio – ora meditabondo e silenzioso, sognatore dialogante con lo spirito del mondo, saggio esploratore nelle profondità della coscienza che non echeggia e non stride al manifestarsi dell'altro-da-sé. Per dieci lunghi anni il Profeta ignorò il tempo. 
Si svegliò un mattino: l'aurora lo chiamò la sua luce e gli disse il suo calore, poi indicò il suo pieno e scoppiettante silenzio. L'ora era giunta.
Il Profeta scese dal monte, fino al villaggio, e così parlò agli uomini:
 “Ecco, io vi annuncio il fulgido segno più grande e splendente! Dalla pietra del mio fare sorgerà il più grandioso monumento per l'imperitura gloria di queste terre! In esso i vostri figli realizzeranno ciò che siamo stati, in esso forgeranno ciò che vorranno essere e saranno. Questo ed altro, troveranno in esso! Innalzeremo una torre – questo è l'immacolato segno del mio fare!”.
La gente ascoltò dapprima incuriosita quelle parole, poi lo ignorarono, credendolo pazzo.
Tuonò allora il Profeta: 
 “Non giungono come aghi di pungolante verità le mie parole? La colpa dell'inettitudine è in questo luogo, e l'inettitudine è segno di chi ignora il vero! Chi non conosce la verità non ha che pugni carichi di sabbia, ma chi innalza la torre dev'essere grave maestro di roccia e ferro ed altitudine, poiché dovrà edificarla sulla montagna più impervia, sul picco più elevato – e se non avrà una scala dovrà saper salire sulla sua stessa testa: come potrebbe altrimenti? L'inettitudine è segno di chi ignora il vero! Non la sentite corrodere questo luogo in cancrena?”
La gente se n'era già andata, ognuno nel suo affannoso daffare. Restava solo il capo villaggio, che così parlò: 
 “Sono parimenti convinto che quivi alberghi il falso. Potrebbe dunque essere l'inettitudine dei cittadini di questo villaggio, come tu dici. Ma se così non fosse? Non resterebbe dunque la tua sola inettitudine, ad  indicare il falso che impregna questa mattinata di sole? Dici di costruire una grande torre che sia effige di potenza, virtù, verità e ricchezza. Tuttavia, nel lontano Sennaar, terra bagnata dal grande fiume, la stirpe di Noè costruì un tempo una torre – ed è per lor cagione che Iddio scese e confuse le lingue degli uomini, perché così questi non potessero comprendersi l'un l'altro. Ignori forse tutto ciò? Vattene! Le tue invettive non sono qui gradite, forestiero!”.
Il Profeta tornò furibondo sulla montagna, e pose sulla cima di essa la prima pietra del suo fare. E così ancora, e di nuovo, un'altra volta – poiché egli aveva possenti mani per scavar buche e modellare pietre e marmo, per forgiare col fuoco il ferro e l'oro.
Quando la base della torre fu ben visibile agli uomini del villaggio, alcuni tra loro videro il meraviglioso lavoro del Profeta, e lo adorarono, ed ascesero fino alla sommità della montagna. Giungevano infatti da lui ed innalzavano la torre con le loro mani.
Superbo e fiero del successo della sua opera, il Profeta tornò dal capo villaggio. Lo trovò stanco ed affaticato, con il respiro debole e smorto, e così gli parlò:
 “Come puoi non biasimarti da solo? Tutti i villaggi, le città, i paesi e gli imperi si inchinano alla torreggiante maestosità della mia opera; un giorno anche il cielo riconoscerà il nostro glorioso lavoro! I figli dei nostri figli ed i figli dei loro figli ricorderanno un giorno la meraviglia edificata dai loro padri, e dai padri dei loro padri fino a noi! E tu, sciagurato, t'affanni per preparare banchetti,  per costruire terrazze, scarabocchiar fogli nelle assemblee e riscriver leggi – i tuoi figli ignoreranno quelle leggi, ormai superate, oblieranno quelle assemblee, nel loro tempo quelle terrazze saranno già crollate e dei banchetti di oggi non resteranno domani che gli avanzi divorati dai vermi famelici. Il tuo fare muore appena viene alla luce!”
Il capo villaggio ascoltò, attento e meditabondo, e rispose a bassa voce, con profondi respiri:
 “Il mio compito è ascoltare i bisogni della gente, vivere tra la gente ed aiutare la mia gente. Questo è il mio incarico, questo è il mio fare. Ma vieni tu dunque a criticare il mio operato con la vanagloria della tua opera? Sei il benvenuto in questo villaggio. Sarai accolto tra noi. Potrai intrattenerti ai nostri banchetti e bere il nostro vino, presenziare alle nostre assemblee e richiedere la parola e presentare le tue obiezioni, potrai reclamare il mio posto quando verrà il momento, poiché il mio tempo volge ormai al termine!”.
Il Profeta se ne andò, e non tornò per intrattenersi ai banchetti né per bere il prelibato vino del villaggio, non tornò all'assemblea per richiedere la parola e presentare le proprie obiezioni, non reclamò il posto da capo villaggio – tornò invece alla montagna ad osservare compiaciuto il lavoro e l'alacrità degli uomini a lui più devoti, e fu colto dall'estatica visione della torre più maestosa e splendente, contemplabile soltanto nelle idee dei più folli e dei più saggi, e su quel pensiero si addormentò, gaudente.
Si svegliò qualche tempo dopo – e gridò, inorridito. Un solo uomo era rimasto lì, al lavoro, ed era gracile e scarno. Così gli parlò il Profeta:
 “Dove sono dunque gli altri, tuoi compagni? Sono forse fuggiti durante il mio sonno? Sono forse tornati al villaggio?”
Il pover'uomo annuì, spaventato.
Il Profeta scese allora al villaggio. Il capo villaggio era molto malato, tanto che non poteva più svolgere il suo incarico. Stanco e debole, giaceva ormai sul giaciglio del suo ultimo viaggio. Gli uomini correvano e si affaccendavano per sostituirlo, presto qualcun altro avrebbe preso il suo posto, e tutti col loro daffare correvano e sbraitavano per le contrade negli echi di quell'andirivieni continuo.
Il Profeta si sottrasse allora agli uomini e tornò sulla sua montagna, alla base della torre, ormai imponente, e si coricò, superbo, irato verso l'inettitudine degli uomini, poiché essi non avevano compreso il senso del suo fare. O forse, egli non aveva capito il senso del fare degli uomini.

Non stiamo qui a discutere sul senso vero del fare, dice l'Autore, né a schierarci col Profeta o col capo villaggio; il lettore più accorto si sarà già avveduto di ciò: nessuno dei due personaggi è indispensabile al villaggio. Il Profeta, infatti, è colui che lascerà un segno intangibile nella storia e nelle coscienze dei cittadini. Ma, probabilmente, in molti tra gli uomini non avevano alcun interesse nel costruire la torre più grande, magari qualcuno avrebbe preferito costruire una banca, chi una chiesa, qualche palato si diceva già soddisfatto di una bevuta in compagnia, l'atleta si sentiva felice al termine della sua corsa ed il musico già aveva raggiunto la pienezza di sé nei suoi arpeggi e nelle sue melodie.
Parimenti il capo villaggio svolgeva soltanto una funzione di coordinamento e supporto; il punto di riferimento per ogni cittadino confuso e disperso, pur tuttavia anch'egli sostituibile (infatti qualcun altro prenderà a breve il suo posto), non indispensabile agli uomini del villaggio, i quali, al termine del racconto riescono comunque a muoversi in sua assenza.
Se il Profeta ed il capo villaggio avessero cooperato in pace, riconoscendo ognuno il valore, i limiti e le potenzialità dell'altro, la torre sarebbe divenuta ben più ricca e maestosa, ed il capo villaggio sarebbe ancora in salute, poiché l'assenza degli uomini che gli sono stati sottratti e del loro supporto è la causa del suo male.
L'Autore vorrebbe far riflettere il lettore su ciò: proprio da qui nasce la ricchezza nel rapporto tra gli uomini. Se ognuno imparasse a rispettare ed onorare il ruolo dell'altro, riconoscendone l'importanza ed i limiti, senza ritenere che il suo fare sia più virtuoso di quello altrui, nel ricusare futili conflittualità e nel cooperare, probabilmente tutti ne trarremmo grande vantaggio – sia chi costruisce torri, sia chi ha occhi, orecchie e mani per la gente.


L'Autore
Monti – uno che non ha nulla contro la costruzione di torri.


Tratto dal mio vecchio blog.

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Sul superamento dialettico del chitarrista da spiaggia

Nel linguaggio comune viene spesso utilizzata l'espressione “chitarrista da spiaggia” in senso spregiativo, per intendere un chitarrista approssimativo sotto il profilo tecnico. Il chitarrista da spiaggia conosce solo i rudimenti della chitarra, appresi come autodidatta o frequentando un numero più che esiguo di lezioni, al solo scopo di conoscere le basi dello strumento per poter accompagnare la voce nelle canzoni: i primi accordi maggiori, minori e di settima, i vari giri armonici e poco d'altro. Il repertorio da spiaggia, infatti, alterna tra Ligabue e Vasco Rossi, passando per qualche canzoncina, sempre e rigorosamente di cantautori italiani, nel migliore dei casi di Battisti o De André. In casi sporadici il chitarrista può cimentarsi in qualche hit anche recente, ma difficilmente smentisce il cliché che lo vuole capace di cantare nella sola lingua italiana.
L'antitesi del chitarrista da spiaggia può essere definito come “chitarrista formale”: esperto conoscitore delle scale musicali e della teoria degli accordi, alacre e laborioso studente  – nonché amante – del suo strumento, fan accanito dei grandi guitar heroes, da Hendrix a Vai, da Satriani a Malmsteen, da Richie Kotzen a John Petrucci. Per il chitarrista formale la chitarra è più uno stile di vita che un semplice strumento musicale.
Situazione tipica: Ferragosto, al mare, scende la notte. Davanti al falò. Al chitarrista da spiaggia (che gioca in casa) bastano un re maggiore, un do maggiore ed un sol maggiore per portarsi dietro le belle voci di qualche ragazza un po' allegra con “Sweet Home Alabama” (o “All Summer Long”, per chi fosse nato qualche settimana fa). Il chitarrista da spiaggia suona sgraziatamente tre accordi e mugola la melodia della canzoncina (lo ricordiamo: l'inglese non lo sa, oppure è tutt'altro che intonato) ed ha già raggiunto il massimo dei risultati. Con il minimo sforzo.
L'abilità del chitarrista formale, al contrario, si può manifestare in diversi modi. Se la chitarra è una, il chitarrista formale ignorerà l'esistenza di accordi e di un testo da cantare, e si perderà tra i saliscendi delle sue scale, totalmente ignorato dal pubblico. Se le chitarre sono due, il chitarrista formale improvviserà con un accompagnamento a suo supporto; susciterà l'ammirazione di qualcuno più o meno fino al quinto minuto di assolo ininterrotto, poi piomberà nella solitudine come nel caso precedente – insieme al suo collega di accompagnamento, il quale, nel caso in cui si tratti di un chitarrista da spiaggia, probabilmente intonerà una canzone di Vasco ridestando l'attenzione del pubblico e lasciando il chitarrista formale nel pieno sconforto.
La lezione che il chitarrista formale deve apprendere, per emanciparsi da questo stato di subordinazione, è molto semplice: è necessario mettere da parte la superbia ed imparare ad improvvisarsi chitarrista da spiaggia. Anziché fare il disadattato nell'aspro confronto contro la mediocrità, è forse meglio rifuggire la battaglia, persa in partenza, in favore di un approccio più socievole. Perché il chitarrista formale sa sicuramente suonare tre accordi maggiori (e pure meglio del suo alter-ego) ma non li suona perché preferisce non abbassarsi al livello di quel pivello che ancora suona la “Canzone del Sole”; tuttavia, quest'atto di superbia culturale implica un necessario conflitto dialettico dal quale non c'è alcuna via di scampo alternativa all'infelicità della solitudine. Meglio conviverci, col chitarrista da spiaggia, il quale, nella sua carenza tecnica, ha raggiunto una comprensione della situazione ed un know how sufficiente per intrattenere i presenti; una consapevolezza fondamentale del tutto ignorata dalla coscienza chitarrista formale.
A questo punto, se di tre accordi si tratta, che tre accordi siano! Il chitarrista formale supera lo stato di alienazione dalla società e si reintegra in essa, giungendo ad una sintesi superiore: il chitarrista completo.
Chitarristi (formali e da spiaggia) di tutto il mondo, unitevi! Soprattutto a Ferragosto.
Un discorso analogo può essere fatto per la condizione dell'intellettuale. Spesso la superbia ci spinge ad esprimere giudizi affrettati e semplicistici sulla condotta altrui, sulla “bassa lega” di certi comportamenti o sulla mediocrità di certi discorsi. Questa superbia è giustificata finché non subentra un ostacolo: quando l'intellettuale soffre la solitudine, allora diventa un po' come il chitarrista formale che suona i suoi arpeggi nel cantuccio tra gli scogli non illuminato dal falò. Non fa neppure tenerezza, quella sagoma buia: tutti conoscono il suo disprezzo per le canzonette e per la società dei mediocri. A questo punto, se l'intellettuale ha davvero raggiunto una consapevolezza maggiore, dovrebbe riuscire ad accantonare le convinzioni superflue e superare lo stato di solitudine, abbandonandosi talvolta a comportamenti semplicistici, a discorsi mediocri. Da questa prospettiva potrebbe pure incentivare gli altri a migliorarsi, provando magari a far comprendere loro qualcosa in più, ma senza adirarsi quando non riesce nell'impresa, talvolta davvero ardua. Perché l'importante è passare bei momenti, soprattutto a Ferragosto. 
Molto spesso è capitato anche a me di cadere nell'errore, sia con la chitarra, sia con le persone; pur non avendo mai vissuto pesanti momenti di solitudine, ho l'impressione che questa socievole forma di emancipazione dai pregiudizi culturali – e musicali – sia un passaggio necessario per giungere dialetticamente ad una sintesi: un intellettuale completo, un chitarrista completo.

Parafrasando Nietzsche: il chitarrista formale è un ponte tra il chitarrista da spiaggia ed il chitarrista completo.

Tratto dal mio vecchio blog.


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L'artificiere democratico

16 gen 2009 18:18 , , 0 Comments

Riflettendo sugli eventi recenti che mi hanno visto coinvolto, di questi ultimi tempi, in quanto amministratore di un forum e rappresentante degli studenti del mio corso di laurea, nonché partendo da riflessioni sulla politica italiana dell'ultimo periodo in materia di istruzione, m'è venuta in mente questa storiella molto banale.
Ci troviamo in un grande complesso aziendale, fuori città. In uno degli uffici, squilla il telefono. È un addetto del servizio di sicurezza, che ha appena trovato un timer collegato a quello che sembra essere un ordigno artigianale, nel piano sotterraneo dell'edificio. A rispondere, invece, è un impiegato anziano, assunto da poco, con un passato da artificiere, che immantinente riattacca la cornetta e si fionda sul luogo.
Ad attenderlo, due responsabili della sicurezza, tre operai ed una donna, addetta alle pulizie. Questi sono tutti al contempo terrorizzati ed incuriositi, pronti ad uscire e dare l'allarme in caso di necessità.
L'artificiere osserva l'ordigno con attenzione e scuote il capo, in segno di disfatta: manca un minuto all'esplosione.
C'è una speranza. l'artificiere scopre che l'ordigno è collegato al timer da due fili principali, attorcigliati tra loro.
Il dilemma è classico: un filo rosso ed uno blu, ed un paio di forbici prese dagli arnesi della donna delle pulizie. Uno è quello che collega il timer all'ordigno, l'altro è quello che lo innesca. Ma non c'è nulla che offra al professionista, in così poco tempo, abbastanza informazioni sul da farsi. Ne deve tagliare uno, ed in fretta.
Ora, l'artificiere è un convintissimo democratico, e per non escludere nessuno dei presenti da una decisione tanto importante, quali le stesse vite dei sei presenti (e dell'intero complesso aziendale), chiede a tutti quale scegliere tra le due opzioni. Sommando le proposte con la sua, sette in totale, sceglie il filo (solitamente viene tagliato il rosso nei paesi occidentali, il blu in quelli orientali ed ex-sovietici). La probabilità che l'ordigno esploda è intorno al 50%. Ma... Ka-boom!!
Il dado è tratto, e sfortunatamente il filo corretto era l'altro. A breve giungeranno sul posto i giornalisti.

Se invece l'artificiere avesse escluso gli incompetenti del settore, avrebbe forse anche scoperto che uno dei due addetti alla sicurezza presenti, in gioventù, ha lavorato come elettricista; e che, se interpellato, avrebbe avuto un consiglio da dare per congelare, con buona probabilità (quindi senza certezza assoluta) il timer, all'apparenza rudimentale, garantendo almeno qualche ora per permettere l'evacuazione dell'edificio e l'arrivo di altro personale per il disinnesco. Le probabilità di salvezza, insomma, sarebbero state di gran lunga maggiori.

Questo è ciò che spesso accade in democrazia; si bada spesso a sentire l'opinione di tutti, perché la scelta riguarda tutti, per poi fare la scelta sbagliata (o rischiare di farla), piuttosto che quella di pochi e fare con buona probabilità la scelta giusta.
Questa “dittatura dell'ignoranza” è l'aspetto più temibile della democrazia, perché per decisioni estremamente complesse e parimenti importanti, le poche persone davvero competenti che conoscono la soluzione migliore vengono affossati dal mare magnum di idioti che finiscono poi per prendere la decisione errata.

Tratto dal mio vecchio blog.

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