Sociologia dell'audiofilia

5 ago 2015 21:04 , , , 3 Comments

A volte basta meno di un suono per riflettere. Ti fai un giro in bus, una passeggiata per strada, un salto al centro commerciale e pensi. Alla musica, ma anche al mondo attraverso cui ne fruiamo quotidianamente.
Del resto una vita senza musica non ha alcun senso. La vita senza la musica sarebbe un errore, scriveva Nietzsche nel  Götzen-Dämmerung.
E noi contemporanei, come ascoltiamo la nostra musica preferita? In pochi anni le nostre abitudini hanno subito una vera e propria rivoluzione. Complice la crisi dei supporti ottici (come i CD) e magnetici (nonostante la ‘moda’ del vinile, comunque di nicchia) e come contrappeso l’ascesa incontrastata della musica in formato file (.mp3, .flac) o direttamente in streaming (Spotify , Youtube), ormai il crepuscolo degli idoli è toccato ai vecchi impianti Hi-Fi ed agli stereo, un tempo veri e propri oggetti di culto in ogni abitazione al pari della televisione. I più hi-tech ed i borghesi hanno i loro impianti Dolby 5.1, ma va ammesso che non tutti hanno le disponibilità economiche o di spazio domestico per poterselo permettere. Io no, per citare un brontologo a caso.
In assenza di PC fissi in casa col loro case bello ingombrante, dotati senza possibilità alternative di casse esterne, è innegabile che la massa abbia ormai l’orecchio musicale completamente rapito, in termini di riproduzione audio (escluso il mondo dell'automobile che meriterebbe un discorso a parte), da computer portatili, smartphone e tablet.
Questo è causa di due differenti mutazioni alienanti nel nostro rapporto con la musica: (1) la perdita di qualità del suono ed in risposta la conseguente (2) solitudine dell’individuo-ascoltatore.

Spiego meglio. Il fenomeno di deriva acustica verso il formato file non è un passaggio banale. Il formato file, che tra i suoi vantaggi annovera indubbiamente quello di essere facilmente trasferibile, copiabile e trasportabile, libero dal suo antiquato esoscheletro fisico e di facile gestione, è anche un formato facilmente editabile dall’utente finale, spesso in maniera assolutamente inconsapevole. La compressione di un file in formato .mp3 con conseguente perdita di informazione e qualità è un fatto che viene raramente messo in luce. Ritenuta una mera questione tecnica, anche se poi la musica la ascoltiamo tutti. Quale differenza di qualità può avere un file compresso a 128Kbps da uno a 320Kbps? Con le cuffiette in dotazione al telefonino o con gli speaker del portatile, difficilmente potremmo percepirne la differenza; con lo stereo della nonna, invece, la differenza salterebbe all'orecchio immediatamente. Ammettiamolo nemmeno troppo tacitamente - del resto il suono non può tacere: la nostra società dell’alta tecnologia, del 4K e dell’alta definizione, negli ultimi anni ha perduto il senso dell’udito in favore della qualità visiva.
Del resto la perdita di qualità nelle casse di un PC portatile o del nostro smartphone, che spesso non ha neppure degli speaker stereo, è un fatto assolutamente evidente, e pure (con-)causa di fenomeni terrificanti come la loudness war, ormai senza la quale non riusciremmo neppure a distinguere le note su certi dispositivi.
La risposta a questo problema di perdita della qualità, come vedremo, non è ideologicamente neutrale come si potrebbe pensare.

Il problema (1), ossia la perdita di qualità, viene comunemente superato con due semplici accorgimenti, il secondo dei quali porterà però ad un nuovo problema.
Il primo accorgimento è assicurarsi che la compressione dei file non comprometta la qualità. Gli .mp3 a 320Kbps (lossy, ossia con perdita, seppur minima) ed il formato .flac (lossless, ossia massima qualità) al momento sembrano le soluzioni più gettonate.
Il secondo accorgimento è avere un impianto di riproduzione adatto. Pertanto, se riproduciamo musica attraverso PC portatili, smartphone e tablet non abbiamo a disposizione degli speaker decenti, basti pensare alle basse frequenze praticamente tagliate via, in favore di suoni molto metallici. Con gli impianti stereo in soffitta e gli Hi-Fi a fare la muffa negli scomparti degli ipermercati, oggi viviamo in un periodo di grande ascesa nella produzione di… cuffie. Era ovvio, no?
Nessuno ipotizza tuttavia che l'uscita minijack da 3.5mm in dotazione dello smartphone, del portatile o del tostapane possa collegarsi a delle casse audio di qualità. C’è scritto ‘uscita cuffie’, con l’icona delle cuffie. Pertanto, cuffie.
I rivenditori, sempre sul pezzo tra domanda e offerta, si sono abilmente attrezzati e forniscono cuffie di qualità per tutte le tasche e per tutte le mode. Basta entrare in un negozio di elettronica con un minimo di occhio critico. È il caso delle pessime Beats by Dr. Dre, che costano più di uno smartphone con esorbitanti cifre a tre zeri per una qualità dei componenti decisamente scadente, del resto nell’era del consumismo siamo ormai abituati a pagare i marchi che fanno tendenza senza minimamente verificarne la qualità. Spese folli a parte, la soluzione delle cuffie risolve anche il problema di far passare il suono attraverso il canale meno controllabile, ma che da sempre è stato l’unico esistente: l’aria. In questo modo non servono studi di acustica ambientale e domestica, il suono ci entra direttamente nelle orecchie come se fossimo pluggati direttamente alla macchina, un po’ come in Matrix. Non dobbiamo parlare alla mamma o alla fidanzata o giustificarci per i nostri terribili gusti musicali: tutto avviene dentro di noi, nel nostro pudico solipsismo automatico. Con la massima qualità audio, al volume che vogliamo e con il nostro massimo coinvolgimento, beninteso. Problema risolto.
Eppure, qualcosa non mi soddisfa. Cosa si perde in questo passaggio ragionevolmente indolore dallo stereo alle cuffie ad alta fedeltà? Non torniamo forse alle pur abusate riflessioni sull'homo consumens, monadico, vittima del proprio ego che non può più condividere neppure la musica attraverso l'aria, il suono e le parole nel mondo reale, ma è costretto a farlo virtualmente tramite facebook? Si può ragionevolmente parlare di alienazione? A quale tremenda e taciuta solitudine andiamo incontro?

Mi si perdoni la riflessione ingenua, scaturita da qualche suono disperso attinto per strada, a passeggio per le vie del mondo, vedendo giovani rintanati nel guscio solipsistico delle proprie cuffie a padiglione in attesa dell’autobus. Del resto, sono uno di quelli che ogni minuto della sua vita vorrebbe far tremare la terra con un power chord graffiato sulla chitarra elettrica con alle spalle un muro di amplificatori. Come negli anni ’80, mentre i nostri genitori stavano acquisendo un senso estetico della musica immensamente più sviluppato del nostro.

Un muro di amplificatori. Scena tratta dal videogioco Brütal Legend (2009), di Tim Shafer (Double Fine Productions) con Jack Black nel ruolo di protagonista viruale.



3 commenti: