Distopia – stato: offline


Molto spesso la storia del pensiero ha associato al termine utopia il mito di una società perfetta ed ideale; dalla Repubblica di Platone alla cinquecentesca omonima Utopia di Thomas More, dal 1600 della Città del Sole di Campanella e della Nuova Atlantide di Francis Bacon, fino al 'socialismo utopistico' inteso come qualcosa di irrealizzabile, teorizzato da Marx, da contrapporsi al suo 'socialismo scientifico', quest'ultimo invece ancorato al materialismo storico, che avrebbe garantito un'analisi più accurata dei rapporti di produzione delle società nella storia – al fine di cambiarla. Utopia: un concetto tanto ideale e troppo lontano dalla concreta corruzione del mondo da assumere oggi un senso di grande disillusione – “utopico” è un obiettivo irraggiungibile, un proposito irrealizzabile, un concetto che mai potrà calarsi nel mondo fisico.
Il significato di distopia è l'esatto negativo di quello di utopia: da un lato abbiamo il mito di una società ideale, saggia, equa, libera e perfettamente integrata in tutte le sue parti costitutive, dall'altro lo spettro della peggiore società possibile, coercitiva, repressiva e totalitaria, molto spesso localizzata temporalmente in un futuro non troppo lontano, dove la scienza e le tecnologie finiscono per diventare un metodo di controllo ed oppressione.
Il secolo più fecondo di distopie, figlio di grandi illusioni ed altrettanti grandi ideali disillusi è proprio il 1900: da Brave New World (Il Mondo Nuovo, 1932) di Aldous Huxley a 1984 (1949, scritto nel 1948) di Orwell fino a Fahrenheit 451 (1951) di Ray Bradbury, autore tra l'altro defunto solo il 5 giugno scorso. Ma di società distopiche ne abbiamo viste diverse anche al cinema, dal buon vecchio Metropolis (1927) di Fritz Lang a Matrix (1999) degli Wachowski, passando per l'indimenticabile Arancia Meccanica (1971) di Kubrick, Star Wars (1977) di Lucas e Blade Runner (1982) di Ridley Scott, giusto per citarne alcuni.
Nel suo intervento in una recente conferenza, un docente di Antropologia Culturale mi ha ricordato una mia vecchia riflessione proprio partendo da quest'ultimo film, Blade Runner; un film ambientato in una Los Angeles distopica, grigia e deforme, dominata dall'acciaio cupo delle strutture, avvolta dal fumo e dai vapori dei sobborghi poveri, in un pianeta inquinato ed invivibile, abitato solo da uomini deboli e malati, scartati dalla società, mentre i ricchi benestanti sono già da tempo migrati verso le colonie extramondo. In una scena molto meno celebre e topica di "Ho visto cose che vuoi umani...", Rick Deckard (Harrison Ford) telefona a Rachael (Sean Young), la giovane protagonista-replicante del film. Ciò che potrebbe colpire un ragazzino di oggi è la telefonata: una banale videochiamata in quella che potrebbe tranquillamente essere una cabina telefonica (metallica e sporca) con un monitor. Dimenticavo: siamo nel 2019.


Blade Runner, telefonata del 2019.

Manca qualcosa. Qualcosa che non manca solo nel film di Scott, ma che non appare misteriosamente in tutte le distopie del futuro prodotte nel '900. Non compare nel mondo dell'eugenetica, non compare in quello del Grande Fratello, né nel mondo dei pompieri che bruciano i libri, e neppure in Guerre Stellari, seppur ambientato in una galassia lontana lontana... un oggetto di uso comune che oggi fa parte della nostra vita quotidiana, tanto da diventare spesso un amico inseparabile oppure un compagno scomodo, fino alla patologia. Manca il telefonino!!
La cosa, a ben rifletterci, è assolutamente bizzarra. Teorizzate da Maxwell e successivamente scoperte da Hertz, fino ad arrivare agli esperimenti di Marconi ed ai primi apparecchi radiotrasmettitori, le onde elettromagnetiche erano ben note già dalla fine del diciannovesimo secolo, e già nel primo ventennio del '900 furono utilizzate ampiamente per la comunicazione in ambito navale, militare ed infine civile. Perché nessuno tra i più grandi autori del '900 ha pensato al telefonino? Che fine ha fatto la (tele)comunicazione?
Io la spiegherei in questo modo: la mia impressione è che tutte le distopie sono accomunate da un grande senso di paura, disgusto e disillusione nei confronti del progresso tecnico e scientifico. Opere figlie degli orrori di due conflitti mondiali, dei regimi totalitari, della bomba atomica, terrorizzate e confuse dai primi passi della tecnologia informatica (le prime macchine erano di grandi dimensioni, pensare a piccoli dispositivi portatili con grande potenza di calcolo non era facile neppure per gli addetti ai lavori) e della genetica applicata; credo che per gli autori fosse la cosa più ovvia immaginare un futuro in cui le persone sono sempre più sole, con un regime sempre più forte ed in cui le tecnologie vivono di scopi politico-(a)morali di controllo ed (anti)estetico-ambientali di corruzione paesaggistica e visiva. Per questo nessuno poteva neppure lontanamente immaginare la nascita del tutto inaspettata di Internet, rete di reti attraverso la quale pubblico questo breve scritto, né sembrava realizzabile un sistema che ci rendesse capaci di comunicare continuamente da qualsiasi punto a qualsiasi altro senza l'ausilio di apparecchiature ingombranti ed energia elettrica. Le distopie, insomma, sono tutte rigorosamente offline.
L'unico caso che fa eccezione ovviamente è il recentissimo Matrix, dove tuttavia il nostro mondo di comunicazione è appunto illusorio, generato dal calcolatore, mentre la vera Zion è davvero molto più simile alla Los Angeles di Scott che al mondo fuori dalla finestra.
Chiudo il post con una provocazione, sicuramente un po' spinta e che non rappresenta del tutto chi la scrive, attento e vigile sul mondo di oggi, sulle nuove tecnologie e sui new media, ma di certo mai eccessivamente pessimista: l'incubo più grande paventato nel '900 per la nostra generazione era quello del regime totalitario e del potere della tecnica sull'uomo, dalle telecamere di 1984 ai replicanti di Scott. Oggi viviamo in un mondo (che sembra essere) lontano da quei timori, dove non c'è un grande uomo coi baffi al potere, ma tutto un sistema politico-economico ormai non più fatto di persone fisiche, ma fatto di azioni, di società assicurative, di investimenti e speculazioni che in tempo reale attraversano il mondo da parte a parte come lame, veloci quanto la luce, in un sistema dove non puoi perder tempo a dormire che tra un secondo il secondo precedente sarà già vecchio – neanche buono per esser ricordato come storia. Il paradosso è che siamo oggi più schiavi di quelle stesse tecnologie della comunicazione così user-friendly e così trendy e così catchy di quanto non saremmo stati in un mondo di metallo peno di fumi e di gigantografie distorte di voci orientali dove era l'oppressione vera, concreta e tangibile a dominare la società. Non c'è un grande palazzo del potere, una torre di Babele alla luce del sole. La società si è liquefatta, e ritrovarne gli atomi è diventato un duro compito – mentre le vecchie distopie, le idee che ad esse soggiacciono, apparivano granitiche e possenti almeno quanto chiare, solide nel loro ben più manifesto squallore.
Non credo che sarebbe stato possibile, nel secolo scorso, immaginare un mondo freddo e terribile senza pensare all'individuo come a qualcosa di sempre più incapace di comunicare. Il paradosso è che spesso, invece, nel mondo di oggi, saremmo probabilmente più liberi quando saremo più liberi di essere offline, di staccare la spina – perché la distopia vera, quella che si è realizzata nel mondo, oggi, è capovolta. La distopia non utopica, quella reale, è online.

3 commenti: