Il computer pensante è un imbroglione!

9 feb 2011 20:46 , , , 2 Comments



Nel celebre articolo Computing Machinery and Intelligence comparso nel 1950 su Mind (link), Turing si pone un quesito di grande attualità e fascino: “Can machines think?”
Si potrebbe rispondere subito negativamente, poiché i computer non hanno coscienza di sé. A tale presa di posizione, tuttavia, si potrebbe subito obiettare, in maniera antirealista, che non abbiamo neppure strumenti soddisfacenti per dimostrare che siano tutti gli altri esseri umani, eccezion fatta per noi stessi, soggettivamente autocoscienti. Turing suggerisce quindi di affidarci, in un certo senso, alle apparenze: quando il comportamento di una macchina sarà indiscernibile dal comportamento umano, saremo costretti ad ammettere che la macchina stia effettivamente pensando. 
Il test proposto dal matematico britannico è molto semplice; sono necessari due esseri umani  ed un computer, in tre stanze differenti. Un uomo interrogante (D) pone domande ad un terminale, alle quali il computer (C) e l'essere umano (U) dovranno fornire delle risposte, sempre attraverso un terminale, per una durata complessiva di cinque minuti. 
Compito di D sarà scoprire, in base alle risposte fornite, quale dei due è la macchina C e quale l'essere umano U. Poi toccherà ad un altro D, possibilmente con un background diverso dal precedente (cultura, età, classe sociale etc.) porre nuove domande attraverso il terminale e cercare di distinguere U da C. Se la macchina riesce ad ingannare il 30% degli interroganti ha superato il test. Se il computer supera il test – il computer pensa
Turing era convinto che entro cinquant'anni dalla pubblicazione del suo articolo il test sarebbe stato superato; gli anni sono oggi sessantuno, ma la meta sembra ancora lontana – tuttavia dal 1990 è possibile cimentarsi nell'impresa accettando la sfida del miliardario statunitense Hugh Loebner: chi programmerà una macchina capace di superare il test vincerà un premio di 100,000$ (decretando la fine definitiva della competizione). Nel caso di una molto più probabile fumata nera e test fallito anche quest'anno, sono a disposizione comunque premi per i primi quattro classificati (4000$, 1000$, 750$ e 250$ – link).
Ma come può una macchina fingersi umana? Immagino che tutti i miei lettori abbiano provato ad aggiungere Doretta tra gli amici di MSN, o provato a chattare con programmi tipo A.L.I.C.E. (link) o l'intramontabile Eliza (link). Ad oggi, più che cercare di dotare le macchine di autocoscienza, per la quale immagino si preferisca attendere sviluppi più avanzati delle neuroscienze cognitive, i programmatori cercano di imbrogliare il povero D con qualche trucchetto. Ad esempio, quando la macchina non sa cosa rispondere, spesso riformula l'affermazione dell'interrogante in senso interrogativo. 

D: “Penso che la risposta sia 42”, 
C: “La risposta è 42?” 
D: “Si, quarantadue!” 
C: “Cosa intendi esattamente?”

Altre strategie dei programmatori un po' cheater sono ricorrere al nonsense, o cercare di portare la discussione su un argomento per il quale il computer è preparato, magari cercando di simulare un essere umano con tratti caratteriali particolarmente accentuati, come paranoie, basso livello culturale (basta far rispondere sempre in modo vago o impreciso alla macchina, “boh” o “hmmmm”, quest'ultima una classica citazione di Doretta), fissazioni mentali o interessi e passioni particolarmente pronunciati – sui quali, come dicevo, la macchina è preparata.

D: “Ciao!”
C: “Ciao... ti piace la pizza?”
D: “Si, la mangio tutti i sabati”
C: “Io adoro la pizza margherita! E tu?”

Le macchine hanno autocoscienza? Sostenere le tesi dell'intelligenza artificiale forte (Searle, 1980) non è facile. Al massimo imbrogliano, ma non lo fanno ancora neanche troppo bene. Per quanto mi riguarda, io direi di no – anche se non nego l'enorme fascino di una risposta che suona come un: “non pensano – ma penseranno!”. 
A tal proposito, credo che sostenere tesi sull'intelligenza artificiale debole, ossia l'IA relativa a settori specifici, sia molto più facile. 
Una macchina che gioca a scacchi (da Deep Blue in poi) gioca veramente a scacchi? Anche qui, si tratta di dirimere posizioni filosofiche: chi risponde negativamente è convinto che un computer si limiti a calcolare dati in un codice senza avere la benché minima coscienza di che cosa siano davvero gli scacchi, mentre chi risponde affermativamente non fa altro che constatare il fatto che la macchina riesce ad illudere senza alcun problema l'avversario umano – anzi, riesce pure a giocare meglio e si riserva pure di stravincere, o commettere degli errori umani (ma non troppo umani) a difficoltà easy. Mi sono chiesto molto spesso se fosse possibile simulare un comportamento umano in un FPS online – tale da non farti distinguere i bot dai veri giocatori. Sembra che sia molto difficile: i giocatori più forti, in particolare i mai troppo simpatici cheaters, potrebbero facilmente essere dei bot manovrati dal computer. Al contrario, i giocatori meno esperti commettono errori estremamente difficili da programmare. Ti accorgi giocare davvero online, da un FPS ad un MMORPG, proprio quando vedi quel noob la cui stupidità trascende qualsiasi possibilità di calcolo. Un eccesso di razionalità in un settore è tipico della macchina; al contrario, simulare il pensiero irrazionale non è facile. Alcuni candidati al premio Loebner ricorrono anche al volontario 'sbagliare i calcoli' quando viene chiesto alla macchina di eseguire enormi operazioni – ed il computer, per negare la sua stessa natura di calcolatore, dopo qualche secondo in cui simula una riflessione si permette pure qualche errore.
Le macchine possono pensare? Come si sarà ben notato, la questione si dirime semplicemente in base a ciò che intendiamo per pensiero. In senso assoluto (in termini di autocoscienza) direi di no. Credo inoltre che il test di Turing e le sue applicazioni, da quelle del premio Loebner in poi, non costituiscano un buon metodo per stabilire se le macchine possono pensare o meno – al massimo possono mostrare quanto le macchine riescano ad imbrogliarci bene. 
Ma forse le macchine sono destinate a questo: distruggerci nel settore per il quale sono state programmate, laddove il termine “pensare”, hobbesianamente, si intenda per “capacità di calcolo”, e contemporaneamente risultare completamente passive a stimoli per i quali non sono destinate. Nel mezzo, tra le vette di operazioni al secondo a basso costo della legge di Moore e lo spazio (vuoto) destinato all'autocoscienza ci sono gli uomini. Per chi invece preferisce lasciare il pensiero aleggiare libero nei cieli della metafisica, non basterà l'ennesimo headshot per convincersi che le macchine stanno effettivamente pensando a come farti fuori nella prossima partita. Game over. Continue? Il dibattito, ad oggi, resta aperto – chissà cosa ne pensano le macchine?

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Meaninglessness VI

8 feb 2011 23:36 , 0 Comments

Flusso di cristallo

Divampa l'eco sordo ed opaco della nebbia, sulle montagne del pensiero. 
Oltre la bruma, il silenzio freddo della notte. Forse cerchi ancora, in quel tempio fluttuante, ma non trovi che assenze. Vedresti forse ogni cosa, in un cielo di cristallo, in una spiaggia di diamanti, e sai d'aver trovato un tempo quel regno che hai cercato per tutta la vita. Ma non lo vedi. Come in quel sogno in cui vagavi per le più belle città del mondo, ma degli alti e meravigliosi monumenti non restavano che ombre. Non ti teneva neppure per mano – non c'erano mani né presenze, nel buio.
Ed ora – eccolo – il muro grigio che occulta un mondo intero. Il mondo vero, sì, ecco che cosa hai cercato tanto a lungo, bramandolo, desiderandolo, invocando la sua venuta. Ma in queste lande oscure non scorgi neppure i tuoi piedi. Potrebbero strisciare serpenti, e colpirti, avvolgerti, stritolarti – loro vogliono la tua vita, loro sono il tuo peccato, il tuo desiderio di conoscenza che s'è fatto carne e miseria. 
Ti accorgi così che ascendere alle vette più alte non porta ad altro che a questo. L'inferno ha capovolto i suoi orizzonti, la saggezza è divenuta ignoranza, il piacere è mutato in dolore, l'estasi giace avvolta dall'agonia. Non c'è aria di perfezione laddove non c'è aria alcuna per respirare, ed il respiro che conosce la salita affronta la vita che si fa sempre più rarefatta – e tu, folle, speravi d'aver raggiunto la pace. Eccola, ansimante, quella pace che non dorme mai. Questa è la natura dell'abisso.
Esso ti induce a cadere; quando i sensi saranno svaniti, stremati, non potrai che spiccare un gran balzo verso l'infinito, mentre il tuo spirito vorrebbe sollevarsi e volare, ma non può – semplicemente, l'umanità è negazione del desiderio ultimo in un mondo che non può sostenere neppure la sua stessa immagine.
Solleva lo sguardo ancora un po'. Oltre i cristalli. Si, non puoi vederli, c'è un mondo adamantino ancora più in alto. Invero, non sei ancora caduto, non hai ali fasulle per farlo, ma vorresti tanto provare.
Ora. Fai un altro passo. C'è la nebbia fitta, sulle montagne, ma l'immanenza del reale non ti spaventa. Nel tuo spirito solo c'è abbastanza coraggio da scacciare i serpenti col fuoco della speranza, le tue mani insanguinate possono aggrapparsi ancora ed ancora alla dura roccia, per ascendere di nuovo. Forse c'è una vetta ancora più in alto. Cosa resta di quei sogni, se non migliaia di rovine che si stagliano contro l'idea che trafisse colui che le eresse, nel cosmo del suo pensiero? La porta che conduce alla realtà è più vera del segreto che custodisce: anche tale prelibatezza proibita, discesa nel mondo, è ormai come neve sporca, quasi avvelenata dall'immanenza. 
Solleva lo sguardo ancora un po'. Oltre i cristalli. Si, non puoi vederli, c'è un universo intero ancora più in alto.
Chiudi ora gli occhi. Te ne sarai accorto. La vista non conta – oltre il mondo di bruma la vita risplende come il cielo superiore, oltre i fumi densi delle città di mezzo, degli uomini e delle ingenuità. 
C'è una voce lontana, nella memoria, che ti solleva dal buio, ti accarezza e ti conduce oltre l'agonia del reale, mai troppo simile al mondo dei tuoi desideri, mai troppo meraviglioso rispetto al tuo folle incedere e ritrarre e supporre e meditare e pensare e congetturare invano. Perché c'è sempre un altro mondo da cercare, più in alto, oltre le montagne cristalline dei cieli, dove forse la nebbia inizia a dissiparsi, una leggera brezza accompagna una sottile pioggia che via via si apre, nel candore dell'essere e dell'eterno divenire. Lì troverai l'infinito – così l'infinito ti parla. Ma tu, sorridendo, beffardo, ammetti a te stesso d'averlo già trovato, prima che scivolasse via dalle tue mani come acqua limpida e cristallina, prima che potessi persino avvederti di non poter cingere l'ineffabile. La sua assenza è assenza nel testo, nella scrittura e nella comprensione – perché nell'infinito non c'è alcun testo, né alcun testo può concedersi all'infinito. Questo dirai ai poveri ciarlatani che venerano pagine e rilegature. Ricordi d'aver spiccato il volo, ingenuamente. Hai già scalato la montagna una volta, l'hai invero sorvolata, conosci la sua vetta più luminosa, perché ne condividi il cuore, il segreto oscuro, che da solo non oseresti neppure pronunciare, non conosci né conoscerai ogni verso della preghiera, dovrai recitarla in coro solenne. Non puoi affrontare la scalinata di pietra ed oltrepassare i muri proiettati dalle ombre salendo sulle tue stesse spalle – ora ne ricordi il perché, ora ricordi perché sei caduto e cadrai di nuovo, senza ferirti, per poi salire ancora più in alto di prima, per accarezzare in un dolce istante il senso stesso del viaggio ascensionale.
Hai già raggiunto l'eterno splendore – che eterno non era, in te e per il tuo stesso peccato d'umanità. Hai già contemplato cieli di cristallo e spiagge adamantine, ma sono luoghi inaccessibili alla solitudine di un pensiero solo, che non può descriverli, reificarli nel verbo e condividerli nel testo, se non nelle ore dell'aspra salita attraverso il buio delle rocce e della dura fatica e dell'ingenua speranza. Sì, per disciogliere la verità dal ghiaccio dell'immanenza in un istante di estatica riflessione, per sorvolare irradiando di luce le tenebre del mondo e planare l'istante successivo con le ali del fuoco sempiterno – bisogna essere insieme.

C'è un semaforo che non se ne vuole andare mai

7 feb 2011 18:12 , 0 Comments

C'è un semaforo – Strada Torrette, dalla Statale Adriatica
volti a destra, venendo da Fano, e tiri dritto.
C'è un semaforo che non se ne vuole andare mai.
Lì la strada stringe. Troppo per due auto.
Lì ci sono i lavori. Da una vita – e non ho capito perché
si passa uno alla volta.
Decide il verde, che è preceduto dal giallo
– e non ho capito perché
tutto sotto all'autostrada.
È un semaforo provvisorio.
Quello dei lavori in corso.
Siamo a febbraio, ed è lì da prima dell'estate
(o forse prima ancora?)
la più lunga della mia vita
e si passa sempre uno alla volta
in fila
come ai cancelli dell'inferno.
Decide il verde.
Sali per la collina, qualche metro
e poi la Strada Belvedere,
a sinistra. La ignori.
È una porta, che quel semaforo sorveglia
uno strettissimo passaggio sotto il ponte
pochi metri, che non servirebbe neppure
che ti apre all'universo – panorama
lontano: quello è il tuo mondo
un po' spostato a sud, e poi lungo le mura,
dal Bastione alla Rocca, e da giù fino a Pesaro.
Tutto in uno sguardo
hai oltrepassato quel semaforo.
Quindici minuti, o forse meno, ed hai già visto tutto.
Sei di nuovo sulla rotatoria, sul Ponte Metauro.
Perché quel semaforo non è lo spazio né il tempo
è solo una triste ripetizione, di qualcosa
che non se ne andrà mai.
Ma quando lo oltrepassi, come ogni porta
ogni passaggio o sentiero oscuro,
ecco, dopo una salita lo vedi:
non c'è un mondo che non valga qualche minuto di attesa
interminabile come una vita
davanti al rosso.

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Le città e l'inettitudine - Pavonia

4 feb 2011 16:23 , , , 1 Comments


Convex and Concave.JPG


Nella città di Pavonia c'è un muratore al lavoro. Ce ne sono tanti, come lui, e lui è come i suoi compagni: stanno costruendo l'edificio più alto, costato anni di lavoro e fatica equamente retribuita. C'è un geometra, con loro, ed un ingegnere. Chiedersi quale sia il geometra e quale sia l'ingegnere, a Pavonia, non ha alcun senso. L'avvocato è come tutti gli avvocati, il fabbro è come tutti i fabbri, ed ogni avvocato tra avvocati non lo si riconosce affatto come riconosceresti un fabbro tra i muratori, né riconosceresti un fabbro tra fabbri ed un muratore tra muratori. A Pavonia ci sono i giardinieri, tutti uguali tra loro colla divisa verde sperduti nel verde tra il fogliame verde; e le prostitute, tutte uguali, attraversano il marciapiede nelle ore notturne – dal fisico longilineo, dai seni rifatti, dalle labbra carnose alle vesti succinte. Autorizzate a circolare solo dalle 23:00 alle 5.00. Forse è anche grazie a loro che Pavonia sopravvive al suo stesso ordine.
Nelle fabbriche, gli operai si somigliano un po' tutti come piccole e laboriose formiche, ma questo particolare resiste un po' dappertutto, tanto che le fabbriche di Pavonia somigliano a tutte le altre del mondo, dentro e fuori le mura.
Negli asili di Pavonia le maestre bianche insegnano a tutti i bambini della città; a quelli colle giubbe rosse l'artigianato, a quelli colle giubbe blu la letteratura e la retorica, a quelli con le giubbe bianche la catena di montaggio, e così via, in base alle doti neo-steineriane che i bambini dimostrano ai test attitudinali del Binetti. L'ingegneria genetica sta semplificando i lavori delle insegnanti grazie alle fecondazioni artificiali teorizzate da Bokanovsky e concretizzate dagli scienziati al soldo dei filosofi.
L'unica legge che sorregge l'intero sistema economico, sociale e politico di Pavonia è lo slogan: “fa solo e soltanto ciò che è tuo dovere fare”.
Nel comune di Pavonia, l'amministrazione è in mano ai filosofi, i Pla-ProCi, Plato pro civitate. Sono loro a stabilire cosa è “dovere” per ogni lavoratore; ogni alacre elemento del laborioso tessuto sociale è controllato dai filosofi. Nessuno può fare altro: non vedrai mai una divisa verde riparare un muro, poiché è compito dei muratori, non dei giardinieri. Ma neppure potresti mai pensare di vedere una prostituta andare in macchina. Non ci sono, a dire il vero, neppure le macchine: ci sono gli autisti, vestiti di giallo e nero, e pensano loro a scorrazzare ogni cittadino con scuolabus, cantierbus, taxibus, bus-stop ed elitaxi, tutti pieni di gente vestita allo stesso modo. Ogni ruolo sociale è logicamente prescritto dai filosofi: in questo modo ogni cittadino ha un posto di lavoro ed un lavoro da svolgere. Non esiste la disoccupazione, non esiste criminalità: il furto è punito allo stesso modo di ogni altro crimine. Chi non rispetta la legge “fa solo e soltanto ciò che è tuo dovere fare” viene ucciso – così lavorano le tute azzurre, la polizia. Chi ozia, viene ucciso. Chi si cucina il pranzo viene ucciso, a meno che non si tratti di un cuoco: veste bianca con il cappello da chef. Chi taglia l'erba viene ucciso – a meno che non sia un giardiniere.
Un giorno di questi un mio caro amico di Pavonia si fece la barba da solo. Ma non era un barbiere. Venne ucciso. A Pavonia solo i barbieri si fanno la barba da soli – in quanto barbieri, e non sorgono paradossi d'alcun tipo.
Spinto dalla curiosità e dal desiderio di conoscere mondi nuovi, sono stato a Pavonia diverse volte, con uno speciale pass da visitatore, corredato di abito e documenti. Oggi la trovo terribilmente noiosa. Penso che ci siano molte più cose in cielo e in terra, di quante ne sognino i sognatori ed i poeti (vestiti di blu con stelline gialle ed un cappello a punta, ridicoli come Mago Merlino in una metropoli) di Pavonia. Per questo me ne sono sempre andato con l'amaro in bocca, da quella distopia che è spesso posta in essere, ma solo nella mia mente, ed in quella di tanti altri come me, che a Pavonia ci sono stati solo per andarsene con l'amaro in bocca.
Quelli che ci abitano, invece, probabilmente non sanno di abitarci, ed hanno sempre la bocca dolce – di sapore e di appetito, ma criticano in continuazione e sempre molto volentieri lo straniero, anche se ben intenzionato. Sono troppo pieni di sé per avvedersene, e pure per guardarsi intorno o per cercare risposte oltre tutto ciò che è, in quanto fittizio, oltre le proprie risposte monocromatiche. 
Nessun abitante può immaginare che oltre le mura di Pavonia, lungo le vallate e le montagne all'orizzonte, c'è solo un altro pensiero ordinato quanto impossibile. 

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