Meglio il mio “male” o il tuo “peggio”?



È di qualche minuto fa la dichiarazione dello scrittore Aldo Busi, a Piazza Pulita su La7:

È più violento un ragazzo che brucia un cassonetto o i manager di Stato che prendono 600 milioni di euro all’anno?

La frase è riferita alla protesta di sabato scorso a Roma che si è protratta fino agli attuali insediamenti a Porta Pia. Non entrerò qui nel merito della questione, per la quale i manifestanti hanno tutta la mia comprensione. Vorrei solo astrarre un po’ l’affermazione. Generalizzarla. Come fanno da sempre i filosofi.
Mi colpisce la frase e la stortura etica che nasconde un simile argomento retorico, quando questo è volto a giustificare un fatto negativo, mettendo in luce un fatto (ancor più) negativo. 
La domanda retorica del buon Busi è infatti vera e per certi versi condivisibile: è sicuramente più “violento” (nel senso di “dannoso” per la società, ma anche nel senso di “crudele”, inteso come senza etica né educazione alla convivenza) un manager di stato che lucra immeritatamente sulle tasse dei cittadini di un povero ragazzo disoccupato che brucia un cassonetto come segno di protesta, ma questo argomento non giustifica il cassonetto bruciato – sebbene di fatto lo faccia, e pure a fin di bene. 
Un altro esempio è l'argomento ad hominem: “io ho rubato 100 euro, ma tu ne ha rubati 5000!”. Chi ruba 5000 euro deve essere punito con più severità rispetto a chi ne ruba 100, ma se l’argomento in questione era il mio furto di 100 euro, invocare il tuo furto da 5000 euro è solo un argomento retorico per distogliere l’attenzione da un fatto all’altro. 
“Meglio colpire un albero ai 180 Km/h o colpirlo ai 100 Km/h?”. Credo che la persona razionale dica: “sarebbe meglio cercare di non colpirlo”, aggirando logicamente l’argomento-trappola, con la responsabilità di chi non sta al gioco. Troppo facile rispondere “100” a gran voce come il pubblico televisivo-zombie di Iva Zanicchi qualche anno fa. 

La macchina del fango di quest'epoca si alimenta con argomenti potenti come questo. Argomenti purtroppo intrisi di cattiva retorica e fortemente diseducativi, con i quali noi giovani facciamo i conti tutti i giorni ricevendo sovente il cattivo esempio dai media, come in questo caso, senza avere gli strumenti per comprenderli e disinnescarli. Impariamo così a ragionare in questo modo, e trasliamo questo genere di argomenti dall’iperuranio malato dello schermo televisivo alla nostra quotidianità, con risultati sovente pessimi sul nostro senso civico e sociale. Anziché fare a gara tra cattivi esempi, non sarebbe meglio argomentare in maniera virtuosa? Siamo davvero condannati, nella società come nella politica, a perseguire la filosofia e la pratica del “male minore”?

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Sulla bufala della “Storia dell’Arte cancellata” (e sulla sQuola reazionaria)



In questi giorni circolano con insistenza in rete notizie circa gli effetti a lungo termine della Riforma Gelmini del 2010, rei a quanto si legge di aver inferto un colpo mortale all'insegnamento di Storia dell’Arte nelle scuole secondarie. Grande sfregio alla cultura dei giovani non rettificato (per non dire confermato) dal Decreto Scuola varato dall’attuale Ministro Carrozza. Ed ecco che spunta la solita, sacrosanta petizione (eccola, su firmiamo.it) già con oltre 3.000 firme per salvare la cultura dalle oscure grinfie della politica. Viene da chiedersi se la situazione sia così assurda come la si racconta, oppure, al solito, in Italia si brontola prima e si ragiona solo poi. Pertanto, l’internettiano brontologico medio (il sottoscritto), procede a googlare per raccogliere il maggior numero di informazioni e capire cosa davvero stia accadendo all’insegnamento di una tra le materie più affascinanti del percorso scolastico – ed uno dei pilastri sui quali poggia l’intera cultura del nostro paese.

I risultati dalle testate online sono sconcertanti. Quasi nessun sito riesce a far capire al lettore (o forse sono io ad essere stupido, in quanto lettore, e la cosa non è da escludersi) in con quale metodo e con quale arma questa riforma “uccida” la Storia dell’arte. Ci sono state delle riduzioni. Dei tagli. Ma quali? In quali istituti? Di quali entità? 
Nel leggere i titoli (ma anche gli articoli) scopriamo che la vittima è morta senza che nessun cronista abbia saputo nulla del cadavere: se qualcuno l’ha visto, come è avvenuto il fatto. Si sa solo che è avvenuto. Sarà che le “tre I” della Moratti hanno mandato in sbornia i giornalisti, facendo dimenticare loro la regola delle “5 W”?

L’articolo apre con l’apocalittica: “La Storia dell’arte è stata cancellata dai programmi scolastici, come previsto dalla Riforma Gelmini, in tutte le scuole […]”.



Leggendo i cliccatissimi articoli (controllate i millemila like e “consiglia” su faccialibro), non vi è traccia di una qualche informazione su come effettivamente questa materia venga cancellata. L’impressione (falsa) che si ha è che dall’oggi al domani le ore di Storia dell’Arte siano state annichilite, perché come insegna (in negativo) la Gelmini è meglio studiare i neutrini, piuttosto che Picasso. Letti tali articoli, insomma la conclusione logica è: “da oggi in tutte le sQuole di tutti gli ordinamenti non si insegnerà mai più Storia dell’Arte”.  

Anche leggendo l’appello di Firmiamo.it, già citato, testo che ampiamente condivido, non si ha l’impressione del nodo della faccenda: che cosa cambia nei programmi di Storia dell’Arte?

Scopriamo che la stessa Gelmini nel 2011 aveva precisato, in una lettera al Corriere, che sintetizzo qui ma che andrebbe letta nella sua interezza:

Sull’insegnamento della Storia dell' arte nelle scuole secondarie superiori sono state dette e scritte in questi giorni molte inesattezze. […] prima della riforma l' ordinamento del liceo classico prevedeva complessivamente, per la Storia dell' arte, 4 ore nel solo triennio […] La riforma ha innalzato da 4 a 6 le ore di insegnamento nel triennio. Quanto al liceo scientifico, le ore previste per la Storia dell' arte sono rimaste invariate. La riforma ha, inoltre, introdotto due nuovi licei [...] in entrambi […] è stata inserita la Storia dell' arte. Il liceo artistico è stato profondamente trasformato e le ore di Storia dell' arte sono state portate da 9 a 15. Il liceo musicale, anch' esso di nuova istituzione, ne prevede 10. […] Anche nell' istituto tecnico per il turismo le ore di Storia dell' arte sono state portate da 5 a 6. […] Naturalmente esistevano anche 800 diversi indirizzi sperimentali, una frammentazione inaccettabile ed insostenibile, che presentava i modelli orari più disparati e che non può essere oggetto di confronto vista l' estrema varietà. In alcuni percorsi, infatti, la Storia dell' arte era presente, in altri era del tutto assente anche nel triennio. […]” 

Come si può facilmente verificare, infine, leggendo questa tabella, risalente addirittura al 2009, oppure in formato testuale su Artem Docere i tagli ci sono. Soprattutto negli istituti tecnici, dove una svolta decisamente tecnicista si è de facto verificata, abolendo la materia, a torto o ragione - se ne può discutere. Ed è verissimo che negli indirizzi turistici la soppressione di Storia dell’Arte è uno strano paradosso; una fortissima contraddizione sulla quale vale la pena discutere,  come fa il sito di Varese News, che comunque titola in maniera tutt’altro che professionale, come gli altri: “La Riforma Gelmini cancella storia dell'arte”. Eppure l’impressione è che la Gelmini non abbia mentito constatando le ore addirittura aumentate nei trienni dei licei. Al contempo, fanno riflettere i titoli falsi e truffaldini di certe testate online, tanto che stamattina mi è andata di traverso la colazione nell’atto di esclamare: “eccheccazzo, la casta ha abolito la Storia dell’Arte!” in una posa che ricorda il meme del cereal guy.



Questo sensazionalismo va rivisto, e merita una riflessione. Questo sensazionalismo va stravolto con la forza della pacatezza: la forza dell’equilibrio e dell’onestà intellettuale. La sQuola si dimostra in questi casi reazionaria ed incapace, assieme agli amici scribacchini, di veicolare un messaggio complesso che andrebbe analizzato nei suoi intimi dettagli. Andrebbe capito innanzi tutto l’oggetto della discussione, l’entità dei tagli e fatte le successive proposte costruttive per risolvere la questione, al di là dei prevedibili interessi corporativi del docenti di Storia dell’Arte. Questo dovrebbe insegnare la sQuola. Se gli insegnanti sono i primi a far rivoluzioni con imprecisioni colossali come i titoli di tali articoli (ed i commenti sottostanti, leggere i testi linkati per credere), come pretendono di avere studenti capaci di restare sul pezzo e non uscire fuori tema con strafalcioni epocali?

Purtroppo la sQuola deve in primis riflettere sul fatto che non si può opporre ad infinitum al cambiamento, e che non è attraverso titoli sensazionalistici e sante crociate che risolverà i suoi innumerevoli problemi, ma attraverso l’analisi della situazione e la ricerca delle soluzioni. Tutti siamo in grado di dire “non diminuiamo, ma aumentiamo” (le ore, gli investimenti, i diritti, le risorse), ma purtroppo oggi non basta più. Bisogna anche essere propositivi, adulti, non chiedere solo a mamma e papà di avere di più ma dare consigli concreti su come stare meglio. Su come cambiare. Se questo cambiamento è errato, lo si può cambiare ancora, perché il cambiamento (si) cambia. È la paralisi, la stasi, la rigidità a morire d’inedia. Dalla (vera) rivoluzione del ’68 la sQuola ha mascherato le proprie azioni reazionarie da rivoluzioni – e intanto siamo ancora ancorati alla riforma Gentile del ’anteguerra, nell’era di Internet e dei social media. Gli atteggiamenti della sQuola nei confronti del cambiamento hanno spesso toni sensazionalistici e reazionari, questo caso purtroppo ne è l’ennesima conferma. 

Se non vogliamo far morire (per davvero) una disciplina meravigliosa ed intrisa di italianità come la storia dell’arte, tra l’altro grande polmone economico e turistico del nostro paese, dobbiamo cambiare atteggiamento per primi: essere più critici e non lasciarci abbindolare come cretini dal primo titolo sensazionalistico che leggiamo a sparar commenti rivoluzion… ehr… reazionari senza prima informarsi sulla questione. Altrimenti faremmo meglio a chiuderla del tutto, la sQuola: se non siamo critici nella ricerca delle (fonti delle) informazioni, così come Cartesio nella ricerca della verità, allora la sQuola non serve più a niente. Aboliamola del tutto, come quella robbaccia inutile della Storia dell’Arte! (Si scherza, eh!)

EDIT 02/2014 - Incredibilmente nonostante i numerosi articoli anti-bufala comparsi online volti a smascherare questa menzogna, ancora vengono pubblicati e condivisi articoli come questo di Bloggokin. Bloggo... chi?

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Speculazioni sulla metafora idraulica della gestione delle risorse economiche















Sin dai tempi più remoti, in cui gli uomini iniziarono ad organizzarsi in società, sorsero problemi molto pragmatici sulla gestione delle risorse, non più legate al singolo individuo ma da distribuire alla collettività. Problemi che aumentarono esponenzialmente con l’aumento della complessità del sistema sociale.  Nel tempo, anche le risorse mutarono valore e natura, traducendosi nella loro forma corrente in risorse economiche. Risorse spesso mal gestite, sia nel macrocosmo statale e politico, sia in quello sociale e familiare. 
Una metafora che spesso viene utilizzata per evidenziare la cattiva gestione delle risorse economiche è la seguente, che chiameremo “metafora idraulica”. 

“Ho un sistema di tubature inefficiente. A monte, io [stato o amministratore] posso decidere quanta acqua immettere. Le tubature si occuperanno di distribuire le preziose risorse idriche in maniera capillare, ma i tubi perdono, in quanto pieni di buchi e falle dislocate in numerosi punti del sistema”. 

Come risolvere il problema – attualissimo? Sono spesso proposte diverse strategie di azione, facilmente identificabili con azioni reali compiute e tuttora in atto in molti sistemi, non solo idrici.

La prima proposta è quella di erogare più acqua. “Ma si. Freghiamocene delle falle. Se abbiamo a monte un ghiacciaio, che ce ne importa se dobbiamo disperdere un po’ più di acqua?” Il risultato, evidente, è che anche il grande ghiacciaio, fuor di metafora, prima o poi esaurisce le sue risorse. Perché quando aumenta la pressione le falle si allargano, il sistema cede, sempre più inefficiente, sotto il peso dello spreco; il ghiacciaio non fornisce più risorse sufficienti – e tu devi scioglierlo col phon, con migliaia di phon, fino ad esaurimento scorte.
Controproposta della salvezza. Se la prima opzione è risultata fallace, vuol dire che basta fare esattamente l’opposto: erogare meno acqua. Il sistema si stabilizza. Sembra funzionare. Peccato che in questo modo, chi più risente delle falle non avrà modo di sopravvivere. Invertendo la strategia abbiamo spostato il problema da monte a valle. Solitamente la politica ha in mente solo queste due soluzioni: aprire o chiudere i rubinetti. Riconosci un politico quando a parole può dire qualunque cosa, ma de facto apre e chiude rubinetti.

Arriva l’illuminato: “cerchiamo di chiudere le falle”. Se lo fa solo a parole è un politico (vedi sopra). Finalmente qualcosa di sensato, tanto che questa sembrerebbe la soluzione alla metafora idraulica. Di norma la propongono tutti. Peccato che non sia così facile – o almeno, è molto più difficile che metter mano alla valvola del rubinetto. La strada è comunque percorribile, e se perseguita seriamente è degna di lodi, ma da sola è un po’ mediocre. Non basta. La soluzione più efficace è un’altra, ancora più difficile, ancora più virtuosa, ma indubbiamente risolutiva.
Pensiamo ai tubi”, dice il saggio idraulico. Oppure l’ingegnere. Oppure il filosofo, sempre che ce ne siano ancora, oggi i sistemi, non solo idraulici, sono troppo complessi per loro.
Ci sono due stili di pensiero, tra chi pensa. Ai tubi. 
C’è il rivoluzionario, che distruggerebbe il sistema e lo ricostruirebbe da zero. Spesso si tratta del filosofo, e spessissimo è inconcludente – o forse è l’unico a non aver niente da perdere nello stare anni senz’acqua, prima che qualcuno (non lui, beninteso) rimetta mano al sistema di tubi. Poi c’è il progressista, quello che studia, comprende il sistema e cerca di cambiarlo un pezzo alla volta: il lavoro più difficile. Ci vuole una grande conoscenza del vecchio sistema per farne uno nuovo, ma anche tanta capacità creativa. Bisogna studiare tanto. S(t)u(di)dare per capire, e le capacità di pensiero per fare un salto, dalla comprensione del preesistente alla creazione di qualcosa di nuovo e più efficiente. Non basta arrivare e dire “vaffanculo spacco tutto e faccio di testa mia”. Il progressista è demiurgo, non falso dio onnipotente, plasma materia che non ha creato; è onesto: studia il sistema e modifica un pezzo alla volta, puntualmente e con chiarezza di idee. Egli non è infallibile, infatti è studioso ed empirista, e quando sbaglia non da la colpa agli altri, ma si ravvede dell'errore, si assume la responsabilità e studia nuove soluzioni. Meglio sbagliare per sistemare il sistema piuttosto che continuare a perdere all'infinito. Potrebbe volerci del tempo. Quando il problema è complesso anche la soluzione è complessa, e richiede studio, impegno e poche invettive o polemiche sterili. Questo nuovo tipo di progressista supera il politico reazionario che apre e chiude rubinetti ed l'antipolitico rivoluzionario che li bombarda. Purtroppo non esiste sistema perfetto. Il reazionario pensa che sia l'attuale, l'antipolitico pensa che sia il suo sistema mentale – ma la metafora idraulica rimarrà per sempre valida, ogni sistema è perfettibile, e non è solo una questione di tappar buchi. Ma per perfezionarlo, bisogna essere bravi ingegneri ed al contempo bravi idraulici e bravi filosofi. Insomma, veri progressisti non esistono. Ci sono solo nella teoria, ma nella pratica non è facile rinvenirne. Né nella politica, né nella società. 
Eppure abbiamo molti bravi ingegneri. Ma anche molti bravi idraulici. Chi manca all’appello? 

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Ecomuseo del Litorale Pesarese - itinerari


Di seguito alcune info su un progetto di audioguide al quale ho recentemente lavorato. Trattasi di tracce audiovisive sul litorale pesarese; un Ecomuseo che si snoda attraverso tre percorsi riguardo l'identità marinara di Pesaro, Fano e Gabicce.




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L'Ecomuseo del Litorale è il nuovo parco storico che la Provincia di Pesaro e Urbino ha sviluppato nell'àmbito del progetto europeo Adriamuse.
Una rete di percorsi guidati all'interno dell'identità culturale più tipica della fascia costiera che si estende da Gabicce a Marotta.
Il rapporto con l'Adriatico ha lasciato qui la sua impronta indelebile, caratterizzando in modo originale una civiltà contadina e  marinara al tempo stesso.

Si offre la possibilità di seguirne le tracce, trasformando il patrimonio storico-artistico del territorio in un libro aperto. Lungo tre direttrici principali - Pesaro, Fano e Gabicce – il visitatore può esplorare una rete di percorsi guidati, ampliabili in base ai propri interessi e curiosità.
Dal portale della Provincia di Pesaro e Urbino è possibile scaricare i diversi itinerari tematici sotto forma di tracce audio, da ascoltare sul proprio smartphone, tablet o lettore mp3.


Inoltre presso i punti informativi di Pesaro e Urbino il visitatore potrà noleggiare un lettore mp4 e utilizzarlo per tutto il percorso scelto.
Passo dopo passo, ci si immerge in un viaggio affascinante alla scoperta di rotte migratorie, usanze, feste, riti e tradizioni che colorano di mille sfumature un unico disegno.
Un'esperienza interattiva e personalizzata, che permette a turisti e cittadini di vivere in modo nuovo e più consapevole la storia, immergendosi nei luoghi diffusi di un museo a cielo aperto.

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Due concetti di salario




Se c’è una cosa che mi stupì enormemente quando mi trovai nella terra della fantasia, era come il lavoro fosse anche in quel luogo, per così dire, reale. Vedevo elfi e nani indaffarati giorno e notte per portare a termine le proprie mansioni, e mai il mio sguardo cessava di sorprendersi di fronte al realismo di quei fatti in un mondo così assurdo. Ma la cosa che più mi faceva riflettere, era come elfi e nani incarnassero perfettamente due concetti di salario oggi in netta contrapposizione anche nel mio mondo.

Gli elfi sono sostanzialmente salariati. Offrono il loro lavoro ed in cambio la comunità fornisce loro il compenso. Non è un compenso dipendente dalla quantità di lavoro svolto, sebbene ogni elfo sia alacre e responsabile in ogni sua attività: il concetto alla base del sistema è che ogni elfo ha una famiglia, pertanto viene pagato al termine del mese con un salario adeguato a sfamare quella famiglia.
I lavori degli elfi sono eterni e come la natura. Il lento ed incessante sviluppo della selva ne scandisce il tempo e quel lavoro è garantito perennemente con l'incontaminata stabilità del creato, attraverso la ciclicità del tempo e delle stagioni. Questo non significa che gli elfi lavorino sempre nella stessa foresta, all’ombra degli stessi alberi: eppure è connaturato negli elfi il senso di progettualità del proprio futuro. La sussistenza è garantita dalla società anche in caso di imprevisti, come un incendio.
Ogni elfo guadagna circa mille monete d’oro al mese durante i primi anni di lavoro, mille e duecento poi, e così via fino a duemila monete d’oro per un elfo anziano; gli elfi più bravi possono raggiungere anche cifre più elevate, ma un minimo salariale è garantito a tutti i lavoratori. In questo modo tutti gli elfi possono acquistare una casa nella foresta, un cavallo come mezzo di trasporto, possono vivere con moglie (o marito) in armonia ed accudire i propri figli in serenità e garantire presenza, impegno e continuità lavorativa presso quella grande, viva e sempiterna azienda che è il bosco.

I nani vengono pagati a servizio, nelle miniere. Se il nano estrae dalla cava l’equivalente di diecimila monete d’oro, egli ne guadagna, ad esempio, un decimo: mille. 
I nani guadagnano a provvigioni. Più producono, più guadagnano. I nani guadagnano in maniera molto strana: alcuni vengono pagati cinque monete d’oro per ogni ora di lavoro, altri dieci, altri ancora vengono pagati con una pinta di birra per dieci ore di lavoro, ai limiti dello schiavismo, il tutto in base alla mansione. Alcune mansioni, anche intellettuali, spesso non vengono affatto retribuite, se non con una pacca sulla spalla. 
Nessuno garantisce ai nani le ore di lavoro del giorno successivo: se le fanno, o se glie le fanno fare, sono ricompensati. Altrimenti niente. Il lavoro nelle miniere dei nani è infatti molto breve: un divorare vorace di tutto ciò che la natura ha prodotto in milioni di anni, e quando la miniera è stata ripulita, si passa alla prossima, come se il mondo avesse infinite ricchezze.
Generalmente i nani ricchi sono molto più ricchi degli elfi: hanno compensi spropositati, ville dorate ed enormi magioni. Ma la maggior parte dei nani è povera. Molto più dell’elfo più povero. A differenza degli elfi, i nani non hanno diritti. Non gli sono concesse giornate di malattia – o meglio, se stanno male, non ricevono compenso alcuno; se la produzione è scarsa, non riusciranno a sfamare le proprie famiglie e saranno costretti a vivere  al riparo di una caverna fredda e spoglia.

Non penso che i due modelli che ho incontrato nella terra della fantasia avessero rapporti con i sistemi politico-economici del secolo scorso, come il lettore disattento potrebbe affermare. Troppo facile parlare di comunismo e capitalismo. Che poi, provate a spiegargli di questi sistemi: vi diranno che siete pazzi. Io lo so, ci ho provato!
Gli elfi, più in generale, incarnano il modello del welfare di qualche anno fa: contratti a tempo indeterminato, una continuità lavorativa garantita ed un salario inteso come “quantità di monete d’oro per permettere all’elfo di sfamare una famiglia, comprarsi una casa ed almeno un cavallo”. 
Questo è il concetto di salario della passata generazione, nel mondo reale.
Il salario dei nani, invece, è inteso come “quantità di monete d’oro corrisposte al valore del lavoro svolto, alle ore lavorative effettuate, al profitto generato”.
Questo è invece il concetto di salario nella nostra generazione: decine e decine di contratti e forme lavorative che in nome di una presunta flessibilità e libertà di azione impediscono qualsiasi anelito di progettualità sul futuro per una famiglia. Sebbene entrambi i concetti di salario si traducano concretamente nel versamento di denaro in cambio di lavoro, l’idea che sta alla base del calcolo della retribuzione è radicalmente differente.
Nel nostro mondo, purtroppo, i due concetti vengono spesso a coesistere fino ad ingarbugliarsi, tanto che nessuno nota più l’enorme differenza tra salari elfici e salari nanici.
Eppure la mia generazione fa gli stessi identici lavori della generazione precedente, affiancando lavoratori elfici della generazione precedente, ma con salari nanici e con la stabilità della forma lavorativa nanica. Per lo stesso, identico servizio. Pertanto i giovani, per produrre la stessa ricchezza o lo stesso benessere (se non in molti casi addirittura di più, dato il maggiore entusiasmo, vigore ed un numero maggiore di anni e titoli di studio alle spalle) vengono retribuiti la metà, un quarto, o addirittura non vengono retribuiti, se non con una sonora pacca sulla spalla. 
Questo testo non vuole avere una conclusione, di quelle con speculazioni sociali, economiche o morali. Questo perché i testi senza conclusione lasciano l’amaro in bocca. Ecco. Proprio quel tipo di sensazione che sento ora e che vorrei trasmettere.

- L'Autore, Un sognatore che nella terra della fantasia sarebbe sicuramente un nano,
 con la spalla lussata a forza di pacche

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Democrazia diretta - la democrazia ingenua



Ricordo quando, qualche anno fa, mi venne affidato, un po' per gioco e un po' per caso, il ruolo di rappresentante di classe al liceo. Mi trovavo ad una sorta di assemblea dei rappresentanti, dove si discuteva di questioni (al solito) di poco conto. Dopo qualche minuto di dibattito, si era giunti alla conclusione che andava stabilita una data per un qualche evento festaiolo che ho ormai dimenticato.
A quel punto ho preso ingenuamente la parola, esponendo il mio punto di vista, che suonava più o meno così: “Non possiamo decidere la data in questo modo, qui dentro. Trattandosi di qualcosa di pubblico interesse, dobbiamo prima consultare tutti gli studenti!”
Venni subito bacchettato dal solito pseudo-comunista un po' saccente, qualche anno più grande di me: “Ora sei tu il rappresentante, se ti hanno votato devi decidere tu per tutti”. Ricordo che ci rimasi molto male. Non so se più per la sua arroganza o per l'arroganza che a suo modo di vedere dovevo attribuirmi.

Sono passati parecchi anni, sono stato rappresentante anche del mio primo corso di laurea all'università per tutto il triennio, e nel tempo ho iniziato a maturare l'idea che quel ragazzo avesse ragione. Se ti candidi per rappresentare qualcuno, vuol dire che hai delle idee. Magari anche “ideologiche” - perché questa non è l'era delle post-ideologie come dicono molti filosofi e sociologi sapientoni che quando non capiscono qualcosa del mondo contemporaneo gli applicano l'etichetta “post-” risolvendo con questo giochetto l'impasse imbarazzante. Tra l'altro di ideologie non possiamo farne a meno, anche l'anti-ideologismo è a sua volta un'ideologia, come la democrazia diretta (ma non ditelo a nessuno!).
Se ti candidi per rappresentare qualcuno, se entri in politica, le idee le devi avere tu. Anche per chi ti ha votato.

Spesso molte idee in un primo momento impopolari sono le migliori, che vanno difese se davvero riteniamo che saranno efficaci. Le idee che fanno infiammare le folle, del tipo “facciamo decidere tutto a voi”, sono spesso le più ignobili e scadenti. Se scendi in strada e chiedi la panacea per la crisi economica, in quasi tutti i casi non avrai risposte valide. Magari suggerimenti utili, ma nessuna ricetta. Per questo se sali in politica, devi essere in grado di scrivere ricette. Altrimenti il tuo posto è meglio assegnarlo a qualcun altro.
Oggi si parla spesso di democrazia diretta su Internet, in particolare sulle pagine di un vecchio blog pubblico che si chiama col nome di una persona, che linka all'acquisto dei libri di quella stessa persona, in cui ogni commento vale meno di zero: “schizzi di merda digitali” (link), li ha chiamati quello che dà il nome al blog. Questa è democrazia diretta? Spero davvero che le idee escano da quegli schizzi di merda, perché coi referendum, anche su Internet, non si risolve nulla. Prima ci vogliono le idee. Il referendum ha una valida definizione nelle parole, attualissime ed insuperabili, di Giorgio Gaber:

Il referendum è una pratica di "Democrazia diretta"... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio, ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo "Sì" se vuol dire no, e "No" se vuol dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Ma il referendum ha più che altro un valore folkloristico perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati… tutto resta come prima e chi se ne frega.
link

Basti pensare al finanziamento pubblico ai partiti, abolito in un referendum abrogativo del 1993... tutto resta come prima e chi se ne frega. Inoltre la complessità del reale va ben oltre ad un binario si/no: entrambi comunque interpretabili a piacimento.
In altri termini, questa della democrazia diretta è una forma molto ingenua di pensare la politica. Fa piacere al popolo, alla massa virtuale, perché ha almeno l'illusione di valere qualcosa. Come nel referendum. Ma è parimenti necessario l'intervento della concretezza e della capacità di un amministratore, di un responsabile, di uno che ci metta la faccia, che abbia delle idee e sappia plasmarle come (provvedim)enti reali e tangibili!

Io credo ancora fortemente nel ruolo dei rappresentanti politici. La democrazia diretta è l'ideologia di chi non ha idee, e preferisce delegare agli altri: prima vieni eletto e delegato per fare qualcosa, poi tu deleghi il popolo ed alla fine nessuno combina niente. Chi non ha idee, preferisce la democrazia diretta, perché ogni volta che viene chiamato in causa chiama in causa il popolo.
A questo punto tanto vale eliminare i rappresentanti e lasciar fare tutto alle macchine, facendo votare il popolo ogni settimana sulle centinaia di idee malsane proposte dal popolo stesso, in un mostruoso meccanismo enormemente complesso quanto inefficace per dare a tutti la possibilità di votare sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio, anche a Venezia. Immaginatevi quale distopia Orwell-Huxeleyana: roba che vi costruiscono una TAV tra il bagno e la cucina perché così hanno votato compattamente in maggioranza in tutto il nord Italia mentre voi a votare contrario siete in quattro gatti in Molise (sempre che esista e non sia il mondo segreto dei troll!).

Per questo ripenso spesso all'obiezione che mi fu posta al liceo. Lì ho capito che non è la partecipazione popolare a contare, quanto l'efficacia e l'efficienza di chi si mette in gioco in prima persona, con le proprie idee e la volontà di costruire un pensiero più forte, complesso e strutturato, adatto alla teoria ma soprattutto alla pratica politica. Non è arroganza, è senso di responsabilità. A dispetto di quanto spesso dichiarato da molti, oggi non è la democrazia a mancare. Mancano i rappresentanti per una buona democrazia rappresentativa.
La democrazia diretta è figlia di una grossa ingenuità, la stessa ingenuità di un giovane liceale che si trovava lì quasi per caso, e preferiva, per star tranquillo, che gli altri decidessero per sé stessi... e soprattutto per lui!

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