Strani pensieri: il tunnel sotto la grandine
Grandina. La morsa del
gelo è con me. La sento dentro di me. Cerco di scuotermi, di
accelerare la produzione di calore del mio corpo col movimento.
Invano. Mi sento come una batteria scarica sotto un grande ombrello,
il quale si erge con tutte le sue forze contro lo sciame verticale,
ma nulla può contro i colpi fendenti dell’aria, orizzontali. Il
vento è forte. Impetuoso e tagliente. Piove come se Nettuno fosse
imploso proprio qui sopra, riversando nel mondo i suoi umidi
desideri. Avanzo il movimento di un corpo che deambula per il corso
della città nel giorno di festa, nelle prime ore che seguono il
mezzogiorno, sotto la grandine: il mondo dintorno è il tortuoso
deserto disabitato del re gelo.
Non ho chiare
percezioni delle piccole anime erranti in cerca di riparo che
incrociano, superano o vengono scavalcate dal mio passo di furibonda
debolezza, ma vengo ineluttabilmente attratto dai vetri rilucenti ai
lati della strada. Una vera, luminosa follia si consuma attorno a me.
Negozi. A decine. A
centinaia. Tutti chiusi. Disabitati. Guardali come ammiccano,
bastardi, tutti immersi nel loro tiepido riposo incolume. Tu sei lì
a scuoterti come un pettirosso in mezzo all’uragano, e loro se ne
stanno lì, tutti piccoli occhietti del ciclone, a guardarti dalla
loro tranquillità, splendenti come il sole nell’oscuro universo.
Mentre il gelo annuncia vittoria sul mio corpo stanco, non riesco a
reagire. Guardo i negozi. Mi fanno pensare. I negozi mi fanno pensare
sempre troppo, soprattutto quando i pensieri non riguardano quello
che devo comprare.
Vorrei aprirmi un
varco, trapanare tutte le pareti, basterebbero tanti buchi per
evitare di sprecare tutte quelle luci, tutto quel tepore consumato
invano: un sacro riappropriarsi dell’uomo sul prodotto dell’uomo,
della carne sul mattone. Un tunnel tra i negozi. Questa è l’idea. Un foro per parete che colleghi tutte quelle stanze disabitate del corso. Forse incrociando i miei simili potrei proporre loro la cosa, non c’è
rivoluzione senza un qualche generico “popolo”.
Ma il popolo non c’è.
Quei pochi, possibili resilienti sono soggiogati dal turbinio del
vento, dall’abbraccio del gelo, dai dardi della pioggia. Corrono.
Si sbattono come elettroni attorno al vuoto, quello è il loro unico
moto di rivoluzione. Non riescono neppure a guardare nella direzione
verso la quale stanno avanzando, purché avanzino. Un’altra
rivoluzione andata a male.
I miei intenti mi
abbandonano. Mi lasciano nudo, infreddolito e sconfitto, dinanzi
all’ennesimo negozio di intimo. I pensieri parteggiano per il
freddo, neppure loro hanno apprezzato la mia idea del tunnel tra i
negozi; il calore strappato agli uomini rimarrà ad uso e consumo
delle stanze vuote. I pensieri mi riportano addirittura all’ultima
nottata passata a Milano, all’esterno della stazione ferroviaria. Io almeno
l’ho scelto. Quella notte, scelsi di attendere all’esterno della
stazione il treno delle 5 del mattino, dopo il concerto. Le cinque
ore di attesa circondato da clochard e poveri disgraziati, le ho scelte io,
quella volta. Ma loro no. Loro sono costretti tutti i giorni, a
starsene lì al freddo, di notte. Sicuramente anche loro avranno
visto quelle vetrine di Milano, bastarde, ad ammiccare con slogan e
donne seminude, immagini di corpi al caldo e corpi veri al freddo. Ma
sì. Anche loro avranno sentito almeno una volta, nel loro intimo, il
desiderio di porre fine a questo paradosso, anche senza fare trafori
tra i negozi per agevolare gli spostamenti. Ma la stazione di Milano
è doppiamente paradossale: c’è gente che muore al piano di sopra,
al livello del terreno, tra coperte e scatoloni; e c’è un centro
commerciale qualche metro sotto, tra il piano terra e la
metropolitana. Un centro commerciale. Riscaldato. La scala mobile è
tuttavia chiusa, e non è assolutamente permesso di scendere nei
locali del centro commerciale: caldo tutta la notte. L’unico che ne
“gode” è la guardia giurata – che probabilmente preferirebbe
starsene a casa, durante la notte, con la sua famiglia. La cosa mi
lascia perplesso. Mi sembra una bella metafora di questa società.
Una triste immagine del mondo. Per questa ragione lascio che i miei
pensieri abbiano la meglio: decido di desistere, riprendo ad incedere
sotto la pioggia del giorno di festa per il corso della città,
mentre comprendo che la follia non è dentro di me, non sono io a
generare paradossi. I paradossi sono il mondo. Il tunnel tra i negozi
per i giorni di pioggia, la mia grande opera, non vedrà mai la luce.
Anche la luce è proprietà delle vetrine ammiccanti.
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